Principia naturalia | Trilogia di Inviolabilis Imago
Immagini dell'Inviolabile
Castello della Contessa Adelaide Susa (TO) | 22/12/2012 - 22/01/2013
Imbrigliati nelle maglie dell’urbanità, siamo abituati a sentire e pensare la natura come escursione, come “luogo altro” dove, per uno strano sortilegio, riprendiamo contatto con il mondo e i suoi elementi, ammirandone altresì bellezza e potenza. Il sentimento del sublime, che accompagnava la nostra contemplazione di fronte al naturale e alla sua vastità, si è trasferito sullo scenario di megalopoli endemiche lanciate verso l’alto, espressioni di una volontà di potenza capitalistica. Questo antagonismo tra urbanità e natura percepita come excursus ha un’origine relativamente recente. I suoi caratteri si originano contestualmente alla nascita della modernità, seppure quest’origine sia tutt’altro che ovvia e definibile.
Non c’è dubbio che le nostre idee sulle civiltà premoderne e antiche soffrano dell’influenza delle forme di conoscenza del nostro evo storico, condizionate da quello che, anacronisticamente, potrebbe chiamarsi lo spirito del tempo. In un’accezione più recente potremmo parlare di “contesto”, sociale, civile, culturale, economico-politico, che, per una parte tutt’altro che irrilevante, presiede alla formazione dei nostri giudizi. Quando si pensa alla natura, sorge immediatamente un sentimento di lontananza, colorato di nostalgia verso un passato perduto. Nelle civiltà antiche l’uomo compendia in sé i caratteri del gruppo di appartenenza, ambiente e soggetto sono trasparenti l’uno all’altro e i tratti dell’individuo sono espressione della collettività; uomini e dei fanno parte della stessa discendenza inscritta in un unico piano cosmico, mentre la natura è sentita come onnipervasiva, un tutt’unico in cui ogni parte, compreso l’uomo e le sue produzioni culturali, è integrata e fusa nella totalità. In qualche modo, attraverso le figure dei miti, l’unità veniva colta per conferire senso all’esistenza e all’azione umana. La società moderna è invece il teatro dove si consuma la dissoluzione della totalità, la scissione tra la conoscenza e il cosmo, la separazione tra la coscienza e il mondo.
Della nascita della coscienza l’uomo non è artefice. Qualcuno direbbe che la coscienza è nata da un bisogno fondato sull’istinto di sopravvivenza. Pare, invece, che l’uomo si senta responsabile degli effetti della coscienza stessa. Dunque, l’uomo può accusare se stesso di aver cominciato a discernere e distinguere l’esistente per classificarlo attraverso gli schemi della scienza. Ecco la peculiarità dell’epoca moderna imputabile della scissione: la conoscenza scientifica. Inavvertitamente, mondo e natura sono stati oggettivati come entità estrinseche al soggetto ascrivibili ad una conoscenza di tipo normativo e classificatorio. Il soggetto ha perso il contatto con la natura dal momento in cui la sua indagine ha richiesto una coscienza obiettiva, dunque situata fuori dalla natura e dalla storia. La modernità si manifesta, da una parte, come esigenza del progresso e della nuova scoperta, dall’altra come pratica che necessita dell’adozione di strumenti concettuali di precisione, quali la logica e la matematica, per rappresentare un quadro compiuto e armonico del cosmo. Perché, in fondo, si tratta ancora di ridisegnare l’antica totalità, ma in chiave logica, non più mitica. La distanza posta tra soggetto e natura e la nervatura razionale imposta ai fenomeni del mondo non sono che il tentativo di esorcizzare paure superstiziose o di neutralizzare l’impotenza dell’uomo davanti alle forze che lo trascendono e minacciano. La concettualizzazione avrebbe economizzato tutte le leggi della natura riconducendole non ad un’immagine analogica che, per essere capillarmente fedele alla realtà, avrebbe dovuto coincidere con essa come in un racconto di Borges, bensì alla dimensione del pensiero perfettamente commensurabile all’uomo, con la promessa di una semplificata architettura logica in grado di dar ragione di tutti gli eventi.
Il programma di sistemazione scientifica della conoscenza è però saltato. La scienza si è frantumata contro il muro della realtà, anche se nell’impatto non è andata perduta la sua peculiare pretesa velleitaria. La natura, invece, si prende gioco della scoperta scientifica, ironizza con le sue verità rispondendo per un certo periodo di tempo alle aspettative della legge, per poi eluderla e rimescolare le regole sollecitando una nuova scoperta. La scienza post-moderna, senza con questo voler fare riferimento al postmodernismo, ma solo a una situazione successiva alla deflagrazione del paradigma scientifico, è più fallibilista, mette programmaticamente in questione sia i presupposti che le sue acquisizioni. Non considera, però, che nello spazio del fallimento previsto dai suoi stessi metodi, riemergono la realtà e la natura, come una pianta curativa tra le crepe del cemento. La natura è ancora sentita come alterità, una pressione esterna che mette a dura prova la resistenza delle dighe concettuali. L’esperimento per raccogliere dati ha oggi un carattere meno rigido e persino più ludico, per rispondere al gioco della natura, ma è sempre intenzionato a chiudere e tamponare le falle di un sistema di pensiero, di una certa teoria. E’ come se il perimetro del sacro si fosse rovesciato. Dalla divinizzazione delle forze naturali personificate in feticci e statue raccolti in spazi consacrati, si è passati a una natura malevola che incrina e fa scricchiolare tutti gli sforzi del prezioso lavoro di purificazione in cui la scienza, sacra e fondata sul valore inviolabile della verità, intende involgere il mondo.
Per noi, oggi, è possibile immaginare la primordiale unità nella totalità delle molteplici cose di natura, ma con la consapevolezza che quello stato è frutto di una nostra fantasia. Tuttavia, tale fantasia nasce dalla frustrazione di una precedente utopia scientifica; dunque, senz’altro possiamo riconoscere il luogo da cui prendere commiato, senza però sapere esattamente la destinazione della nuova intrapresa.
Facendo perno sulla creatività, vuoto positivo e spirituale tra le impalcature del pensiero, dovremmo forse rovesciare nuovamente i versi concavi e convessi dello spazio sacro, facendo rientrare la natura e, pur rendendo omaggio al suo vecchio ruolo, confinando fuori dal tempio la conoscenza scientifica. Qui, solo per ipotesi e per un puro piacere mitopoietico, si può tornare a parlare dei principi della natura. Essi fondano l’esistente che comprende le componenti dell’uomo e del suo pensiero cognitivo, di cui il raziocinio è solo un caso nella più ampia capacità visionaria, non il suo compimento ideale. Non esiste progresso se non in direzione di una regresso verso le origini della nostra stessa idea di evoluzione. La ragione non è l’atto di imbrigliare l’energia della natura, bensì un saggiarne la forza e l’imprevedibilità. Esse risuonano in ogni attività umana e in ogni aspetto della nostra vita, anche quando l’attenzione è rivolta alla quotidianità dei nostri commerci minuti.
La natura è indifferente e altera, ma la sua ieraticità rilascia messaggi arcani e indecifrabili come il tempio della poesia di Baudelaire. Per coglierli nella loro ineluttabile presenza dovremmo disporci ad un ascolto che vibra e riverbera tra la natura e la nostra intimità che in essa dimora, sintonizzando la corrente nelle nostre vene con le venature della natura. L’energia naturale sostiene e incrementa la nostra vita. Per sentirne i flussi e scendere in profondità nei suoi principi dovremmo renderci flessibili e trasparenti ad essa, lasciarla agire ed irraggiare il nostro mondo imparando non a comprenderne i misteri ma a veleggiare sulle sue spinte.