Politeia | Trilogia di Inviolabilis Imago
Un'immagine dell'Inviolabile
Castello della Contessa Adelaide Susa (TO) | 17/12/2011 - 11/1/2012
Tra le pieghe infinite della realtà, le trasformazioni naturali e i processi storici sembrano incontrare strati dove tutto appare ordinato, equilibrato, piano e compiuto. La natura lascia vagheggiare idilli bucolici felicemente composti nei miti dell’Arcadia; sull’altro versante, nella linea delle evoluzioni storiche e civili, in vari momenti s’è creduto di possedere il diapason politico per dare la giusta intonazione a tutte le corde dei popoli.
Dove prendono forma queste figure dalle proporzioni perfette? E’ possibile farne esperienza nei paesaggi attraversati, soprattutto sociali e politici, che dipendono dalla nostra cultura e dalla nostra azione? È facile riconoscere che questa terra non ha mai ospitato paesaggi del genere. Se non una mitica età dell’oro, questi hanno rappresentato l’utopia di un destino finora solo possibile; se non un modello estetico ai confini dell’esperienza sensibile, hanno seguito un modello concepibile al di là del percepito, in un cosmo ignoto nella sua totalità che, ingenerosamente, ci abbandona alla lotta per il perfezionamento. Ciò nonostante, si vuole continuare nella ricerca.
Nel dialogo della Politeia, dove Platone racconta il celebre mito della caverna, gli uomini hanno l’unica facoltà di vedere ombre (le umane illusioni) sulla parete di fronte a loro, mentre gli oggetti ideali, veri ma d’un altro mondo, scorrono alle loro spalle illuminati da una sorgente luminosa trascendente. Platone cerca di tagliare sul cono luminoso l’idea politica di uno Stato disciplinato dalle somme realtà intelligibili del Bene e del Bello. L’arcaismo del riferimento non serve ad avallare l’ipotesi di una vera conquista concettuale da parte del filosofo. Segna, piuttosto, la distanza presa dalla superficie contemporanea delle consuetudini e dei caratteri politici che non solo sono strumento amministrativo del nostro spazio pubblico, ma presiedono altresì alla formazione delle nostre opinioni sulla natura dell’esperienza politica. Al fine di liberare la nostra mente da siffatti automatismi, diventa utile comporre un’osservazione obliqua, a doppia focale, dove le questioni che ci impegnano superficialmente siano appaiate da uno sguardo rivolto a ciò che è più fondamentale. Perpetuare l’inchiesta su cosa sia prioritario salvaguardare nell’etica per garantire la convivenza, e insistere sulla disamina dei fondamenti che sostengono le strutture d’intervento politico atte al mantenimento dinamico degli equilibri sociali, sono gli intenti che questa mostra mutua dal dialogo platonico.
Come appare la scena contemporanea dalla quale si vuole distogliere l’attenzione per fissarla maggiormente in profondità? Assistiamo oggi – ma qui è doveroso ammonire sul rischio di soggettivismo, perché altri potrebbero assistere ad una scena totalmente diversa – allo strano esercizio di potere di un apparato ibrido, pluriarticolato, unico congegno a più facce variamente intersecate di potere, economia, tecnocrazia e comunicazione che tenta di presentarsi ed esprimersi con i termini più semplici per dissimulare una complessità difficilmente riducibile ad un’unica immagine chiara e distinta. Strano e magro linguaggio che parla di libertà, di valori, di progresso, in perenne conflitto con le teorie della fine del soggetto, della storia e, dunque, del progresso. Dove individuare con precisione la libertà nel congegno vizioso messo in luce dalla sociologia, un’architettura socio-culturale che induce schemi e automatismi di comportamento nel soggetto pensante, del quale, per altro verso, subisce l’azione attiva di trasformazione? Come distinguere una politica autentica fra i messaggi lanciati sulla massa a velocità bambinesca dai media, che sembrano essere l’unico canale tra gli agenti politici e i destinatari sociali? L’amministrazione piccolo-comunitaria non è sufficiente ad esorcizzare il pericolo, poiché le sue parole d’ordine sono talvolta il calco dell’immagine mediatica della macropolitica. In quest’ottica sospettosa (secondo alcuni paranoica), perfino i concetti di maggioranza e minoranza non sono esenti da una singolare equivocità: “per maggioranza non intendiamo una quantità relativa più grande, ma la determinazione […] di un campione in rapporto al quale le quantità più grandi come le più piccole saranno dette minoritarie: uomo-bianco-adulto-maschio, ecc. […] In questo senso, le donne, i bambini e anche gli animali, i vegetali, le molecole sono minoritari” (G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani). Il riformismo sembra essere una soluzione convincente, se non altro perché consente di rinegoziare la definizione del campione, ma certo non semplifica.
Di fronte alle dimensioni di uno spazio politico che oltrepassa i limiti della singola conoscenza, F. Jameson (F. Jameson, Postmodernismo) incitava allo sforzo di disegnare una mappa mentale della situazione globalizzata. Lo strumento per tracciarla non doveva essere la fedeltà visiva a una realtà troppo scomposta, bensì una sintesi simbolica in grado, quantomeno, di evocare la complessa totalità delle contraddizioni sociali. Il premio per il successo della mappatura consisteva, per Jameson, nella riconquista di un certo orientamento capace di guidare le azioni quotidiane.
Volendo pensare un’opzione più misurata rispetto alla scala globale consigliata da Jameson, l’alternativa ci conduce verso la dimensione elementare di ciò che è mutabilmente essenziale per l’uomo. La politica, in tale ottica più parziale, è immaginata come una struttura protettiva germogliante da fondamenta interrogate senza sosta, mentre la nostra riflessione resta costantemente concentrata sulla micropolitica delle azioni quotidiane, scandagliate ulteriormente, se necessario, fino alla nanopolitica delle cause biologiche interferenti sulle nostre decisioni. La vita, d’altra parte, è sempre stata fra le poste in gioco più alte nelle questioni politiche.
A partire dall’interesse verso ciò che il momento ci fa credere inviolabile, l’archeologia, intesa nei molteplici sensi dell’arché greca (principio, comando, potere, etc.), può attuarsi rimettendo in questione ogni valore portato alla luce nel punto in cui il sacro scaturisce per arginare il caos, senza mai dare per scontate alcune parole d’ordine che l’ovvietà rende facilmente strumentalizzabili. Avventura che non solo ci consente di conoscere la genesi delle forme politiche che attraversiamo nella nostra diaspora storica e spaziale, ma conserva provvisoriamente un nucleo essenziale da proteggere dagli agenti esterni, poiché i “fondamenti” danno anche la misura della legittimazione e della delega del potere. Esiste un potere, intorno al quale si regola spontaneamente la vita associata, che vibra tra l’origine interiore delle nostre azioni e una forza che trascende il singolo. Lo sguardo fisso sui due poli ci rende più strabici ma più accorti. Dalla disseminazione dei nuclei, sorge spontanea, infine, la politica.