Franco Garelli. Pezzi scintillanti
Spazio CORSOTORINO18 - Alba
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Sotto un violento e incessante temporale, un monaco e due compagni lamentano con angoscia di non venire a capo della tragica vicenda che ha colpito un samurai e sua moglie: l’uno assassinato, l’altra violentata mentre attraversavano la foresta. L’assassino, la donna e il marito defunto, il cui spirito si è incarnato in una medium, raccontano diverse versioni dell’accaduto per discolpa di sé e accusa dell’altro. La desolazione non nasce dalla constatazione dell’egoistica disonestà di ciascuno, emerge piuttosto dalla presa di coscienza di un mondo ormai privo di verità. Il delitto assume un significato universale e metafisico, metafora di un’esistenza senza fede, paradigma di una dimensione solitaria entro un vuoto incolmabile scavato nella storia.
E’ la scena iniziale del film Rashomon di Akira Kurosawa, del 1950, girato pochi anni dopo le atomiche sul Giappone; una sequenza folgorante per Franco Garelli, sia sul piano formale che su quello spirituale, come testimoniò egli stesso al critico Renzo Guasco: quell’opera cinematografica fu per lui “un’improvvisa illuminazione”, che ebbe l’effetto di “una svolta nella sua vita”.
Al principio del film le rovine di una pagoda fungono come riparo dalla tempesta per questi uomini persi; resti di un edificio distrutto dal tempo o dalla violenza di una guerra, che hanno strappato via tetto e muri lasciando a nudo le travi cadenti, labilmente attaccate come schegge alla parte superstite della costruzione: qualcosa che ci appare simile nelle forme alle sculture in ferro e bronzo di Garelli degli anni Cinquanta.
Fino a quel punto l’artista aveva modellato le forme secondo i canoni di un figurativo arcaismo modernizzato, analogamente ad Arturo Martini e Marino Marini. Andava affiancando, nella selezione di immagini attinte dall’iconografia antica e scolpite con assolutezza di simboli, coppie di coniugi all’etrusca, cavallo e cavaliere, decorazioni ispirate alla pittura vascolare greca e, soprattutto, il tipo isolato dell’uomo stante. Solo in un secondo momento inseriva nella scultura germi di cubismo, come accadeva nella propria pittura. Scavalcata la soglia del 1950, forse proprio dopo la visione di Rashomon, Garelli si caratterizza invece per una forte drammaturgia imperniata nella declinazione di alternanza tra pieni e vuoti e nell’assemblaggio di frammenti e lacerti recuperati dalla realtà, unendo per lo più scarti metallici, ma anche legni e perfino materie organiche come la pasta, le canne, brani vegetali. L’immagine dell’uomo si sintonizza col sentimento di sgomento e fragilità delle figure del tempio di Kurosawa, bagnate e offese dalla pioggia infinita. Aderiva a un linguaggio di tipo Informale, ponendosi entro i confini di quello specifico movimento.
Il rapporto di complementarità tra pieno e vuoto era già apparso nella moderna sperimentazione artistica a partire da Picasso, ispirato formalmente alle maschere totemiche africane. Garelli cita anche Lipchitz come colui che aveva rivoluzionato la tradizione della scultura incorporando nel modellato lo spazio cavo, il vuoto sfruttato come componente attiva nell’equilibrio tra le masse, in una palpabile e fisica tensione tra intervalli aperti e volumi, concavità e convessità. Dopo le spontanee scoperte picassiane, tuttavia, il cubismo e le sue derivazioni tendono verso l’astrazione formale, trattando le parti della composizione come un insieme di segni all’interno di una struttura significante. Si costruiscono forme il cui effetto dipende dai rapporti spaziali e dal reciproco accordo tra gli elementi dell’opera piuttosto che dalla somiglianza con un soggetto realistico. Il vuoto viene assunto nell’insieme dei segni semplici, combinati per strutturare un linguaggio come le parole all’interno di una frase, a prescindere dalla realtà significata.
Il cubismo ha avuto grande rilievo nella gestazione di uno stile maturo in Garelli, del quale è nota la forte ammirazione per Picasso. Non solo volle incontrare il maestro spagnolo a Vallauris, ma la sua agilità compositiva è molto più vicina alle intuizioni picassiane che al generico formalismo dei seguaci. Il vuoto non è solo un segno bilanciato nell’economia di un’astrazione. È piuttosto una imperscrutabile profondità che permea il pieno, e che da questo viene custodita e protetta. Tra pieni e vuoti si instaura un rapporto simbiotico e osmotico, di compenetrazione continua e attraversamenti reciproci, di una comune affezione che dà corpo all’interiorità attraverso la materia.
Per Garelli luogo prediletto dell’interiorità è la figura umana, ripetuta in modo quasi ossessivo. E se, come dicono i filosofi, il modo d’essere peculiare dell’uomo non è l’essenza immobile ed eterna, ma la mutevole esistenza, allora le trasparenze delle sculture mettono in relazione la gravità dei corpi con l’invisibile fatalità che domina la vita. L’artista si pone sul piano creativo con il vigoroso vitalismo dell’homo faber, dell’artefice che ingaggia la lotta con la materia, che fonde il bronzo, che salda il ferro con l’ottimismo dell’umanista: al centro il pensiero dell’uomo. Tuttavia nei suoi personaggi l’esistenza appare nuda come il tempio squarciato di Rashomon e fragile come le travi spezzate che si incuneano nel cielo. Le sculture crescono sottili o si sviluppano in volumi massicci, ma rivelano sempre un equilibrio vacillante, fissato su esili punti di appoggio che sembrano non reggere il peso, mostrandosi poderose e delicate nel medesimo tempo.
Non sarebbe troppo azzardato individuare gli antenati delle figure garelliane nelle pericolanti impalcature dei manichini metafisici di De Chirico, se non fosse che nel frattempo l’arte si era imbevuta di un’ottimistica fede nella tecnica. La Seconda Guerra mondiale spezzò l’utopia di una civiltà perfezionata nella tecnologia dominata dall’uomo, ma Garelli non era interessato a ricordare la tragedia o a drammatizzare la vicenda umana nel teatro storico. Conservava, al contrario, quell’attenzione senza tempo per le immagini archetipiche e universali che aveva assorbito negli anni di formazione nello stile arcaizzante. Prendeva quindi atto di una nuova condizione esistenziale dell’uomo, collegato agli ingranaggi della moderna società industriale e inglobato nella sfera tecnica di un mondo non più solamente naturale. Parti meccaniche e metalliche si saldano insieme per forgiare le nervature della nuova umanità, senza cancellare il vuoto spirituale delle figure. I frammenti derivano dai processi dell’industria, ma non alludono all’utopia robotica. Sono per lo più scarti e residui della lavorazione, che proiettano il loro senso nella trama emotiva della memoria; una nostalgia non rivolta necessariamente a un passato perduto, ma a una totale e sempre presente affezione per l’uomo. Il serio e concentrato studio sulla qualità dell’esistenza lascerà il posto a un gioco divertito che risalterà soprattutto negli assemblaggi sghembi di rottami riverniciati con brillanti colori industriali. Animati da un piacere ludico, in alcuni di questi montaggi si avverte come un rumore scassato di ferraglia sconnessa, di addentellati, bielle, lamiere e rondelle che sussultano di un riso comune e privo di scopo. Il riso è ancora una diversa forma, più ironica e leggera, ma non meno analitica, di svuotamento, forse attraverso la parodia della civiltà tecnologica, nel modo spassoso di Charlie Chaplin in Tempi Moderni, che insieme alla critica libera la gioia positiva del fanciullo mentre gioca a smontare e ricostruire.
Scolpire il vuoto e aggiornarsi sui materiali contemporanei sono decisivi anche nei Plamec. Nelle opere di questa serie l’aspetto costruttivo cede allo scorrere informe della materia su piani bidimensionali. Le superfici sono come un ribollire di sostanza primordiale tecnorganica, miscugli fluidi di plastiche, forme protozoiche e calchi di componenti meccanici. Lo stampo prende il posto dell’oggetto, raccoglie il suo vuoto affinché nel disordine primitivo ne indichi solo una presenza potenziale, non ancora definita. Anche la ripetizione dei calchi invischiati nei fluidi fonde insieme l’organico e l’inorganico, i flussi di desiderio e appagamento della vita biologica con la serialità, ancora embrionale e scomposta, della riproduzione automatizzata.
I Tubi recuperano il costruttivismo giocoso, riportando tecniche e materiali contemporanei nello spazio della scultura. Tra queste lastre metalliche, curvate su se stesse e dipinte nuovamente con colori sintetici e brillanti, parrebbe dominare l’assenza di figura come nei Plamec. La loro natura è però fortemente antropomorfica, sebbene solo in modo evocativo dell’idea umana. I cilindri, imperfetti, tagliati e sbilenchi, aggiungono il movimento al precario equilibrio delle figure umanoidi degli anni Cinquanta. Dal fondo del vuoto che racchiudono sembra provenire un suono, la silenziosa impressione di una voce sorda come l’aria. Sebbene siano forme astratte e oggettive, verniciate come carrozzerie di auto, l’interno cavo si trasforma ancora una volta nell’interiorità umana a cui Garelli non ha mai smesso di guardare.