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2/5/2024
IL MUSEO COME CENTRO DI ALFABETIZZAZIONE PER IL FUTURO
RIVOLI (TO) | CASTELLO DI RIVOLI | Intervista al direttore Francesco Manacorda
Dal 1984 il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea ha fatto conoscere al suo pubblico artisti, estetiche e ricerche tra i più qualificati nella dialettica con il mondo contemporaneo. Il merito va riconosciuto anzitutto a chi diede vita al Museo nell’antica residenza juvarriana dei Savoia e alle politiche pubbliche e private che lo hanno sostenuto nei suoi 40 anni di attività, ma anche alle personalità di spicco che si sono succedute nella direzione museale, da Rudi Fuchs fino al più recente mandato di Carolyn Christov-Bakargiev, concluso nel dicembre scorso. La nuova nomina è stata assegnata a Francesco Manacorda, che torna a Torino a distanza di dodici anni dalla sua conduzione della fiera Artissima. Nel frattempo, ha sommato esperienze presso la V-A-C Foundation e la Tate Liverpool, ha insegnato al Royal College of Art di Londra e curato le Biennali di Liverpool e Taipei. Le linee guida annunciate dal neodirettore sono quelle imprescindibili per chiunque oggi assuma compiti di responsabilità culturale: sensibile apertura verso tutti i generi di individualità, percezioni incrociate tra culture differenti in rapporto paritario, conservazione dinamica dell’identità e della storia del Museo, relazioni territoriali e internazionali, attenzione alla crescita dei visitatori, con obiettivi formativi che prevalgano sulla semplice attrazione.
Direttore, ha giustamente osservato che la dimensione temporale più significativa per l’arte è il futuro. Anche il direttore di un Museo ha tra i suoi compiti quello di presentire voci ed esperienze che provengono dal futuro dell’arte…
Credo che il futuro ci prospetti varie questioni da risolvere, sia dal punto di vista artistico sia dal punto di vista umano. Certamente l’intelligenza artificiale avrà un impatto forte sugli assetti socioeconomici, ma anche sulla creatività. Questo non vuol dire necessariamente che l’arte sarà fatta dalle macchine, ma che dovremo riflettere su cosa fa l’artista e sul compito del museo nel momento in cui le macchine hanno acquisito una capacità di previsione, e quindi di simulazione, così avanzata. L’arte non sarà mai messa a repentaglio da questi sistemi, perché una delle sue prerogative più importanti e durature è l’imprevedibilità. Se pensiamo che la macchina in realtà prevede la migliore possibile risposta basandosi su un’analisi statistica, allora l’imprevedibilità, cioè l’aspetto creativo, l’esplorare strade mai battute prima, protegge l’intelligenza e l’intuizione creativa e le differenzia dall’attività artificiale. Ad ogni modo non prenderemo in considerazione solo l’AI, ma anche il nostro rapporto con le immagini, con le informazioni, con la capacità di decodificare il contenuto mediato, cioè il contenuto inviato e non esperito direttamente nel reale.
È un confronto obbligato, fosse anche in modo dialetticamente negativo, nel senso che, tra le varie possibilità, l’arte può anche esistere in rapporto di reciproca esclusione con la tecnologia avanzata, come nel caso della pittura.
Assolutamente. Ma non è tanto una questione di mors tua vita mea, quanto di cambiamento dei paradigmi. I social, ad esempio, stanno modificando l’economia dell’attenzione, trasformano l’assorbimento dell’informazione audiovisiva in particolare, con ripercussioni sul museo e sull’arte. Quello che è davvero interessante, al di là dello scenario di un’opera prodotta dalla cibernetica, è come cambia la nostra lente per guardare il mondo. Penso sia molto interessante l’impatto dell’attenzione modificata dai social sulla pittura. Servirà comprendere che cosa vuol dire osservare un dipinto in un museo rispetto a uno scrolling sul proprio telefono, e come si comunica a una nuova generazione che è importante fare esperienza viva di quel quadro, e non solo rimanere appoggiati al telefono.
Reputo fondamentale per un museo diventare un centro di alfabetizzazione alle informazioni, che insegni la capacità di filtrare, selezionare e distinguere contenuti. L’esempio che faccio spesso è quello della Divina Commedia, che non serve più conoscere a memoria, perché la troviamo immediatamente disponibile sul telefono. Il problema si sposta sulla capacità di capire qual è la risposta più rigorosa, più corretta e rilevante rispetto alla domanda che rivolgiamo alla tecnologia. Fare le domande è molto semplice, ma insegnare a selezionare le risposte può essere uno dei contributi del museo e dell’arte contemporanea.
La molteplicità di prospettive, identità e modelli di pensiero distanti è parte della sua visione nella misura in cui si propone di far dialogare “approcci, epistemologie e tradizioni differenti e, a volte, addirittura in contrasto”. Quale soggetto culturale presenta oggi, a suo avviso, il maggiore contrasto con la nostra parte di identità? In che modo un museo di arti visive può tentare di indurre a parlarsi, visto che la forma più estrema del contrasto implica la negazione del dialogo da parte di almeno una posizione più radicale?
I conflitti a cui mi riferivo hanno a che fare con i contrasti epistemologici, tra sistemi di conoscenza diversi. Attraverso le connessioni fisiche e tecnologiche siamo sempre più in contatto con culture differenti; culture che non possono più essere inglobate, come avveniva in passato, all’interno della prospettiva occidentale. Il museo è un esempio principe di questo aspetto, della violenza nei confronti delle altre culture. Siamo abituati a vedere il museo come se fosse il modo naturale di esprimere, raccogliere e raccontare la particolare categoria culturale che chiamiamo arte, ma sia l’arte che il museo sono invenzioni occidentali. Non necessariamente ogni visione si inserisce completamente in questa sovrastruttura culturale inventata dall’Occidente. Dobbiamo quindi riuscire a incorporare nel museo anche culture che, ad esempio, non concepiscono una differenziazione tra arte e altre espressioni materiali, che non ritengono prioritaria la conservazione di artefatti per le future generazioni. Può darsi, invece, che quegli artefatti intendano usarli. Il Museo della civiltà di Roma diretto da Andrea Villani si sta occupando di questi problemi, gestendo tutto il tema delle restituzioni, del rapporto tra culture e del passato predatorio dell’occidente. Le culture indigene hanno prodotti culturali non necessariamente classificabili dai sistemi di conoscenza occidentale, ma devono comunque essere messe nelle condizioni del dialogo. Questo non vuol dire snaturare il museo, ma riformulare al suo interno la necessità di accogliere, oltre a quelle che per noi sono opere d’arte, sistemi di conoscenza differenti.
A proposito dei conflitti geopolitici, invece, la questione diventa più delicata. Si tratta di un aspetto che l’arte ha sempre affrontato, ma è molto complicato, quando un conflitto è ancora aperto, riuscire a trattarlo in maniera non offensiva per una parte o per l’altra. Un esempio è l’attuale situazione in Medio Oriente, che provoca contrapposizioni forti anche nell’ambito di normali discussioni. Quando l’arte parla dei conflitti lo fa molto spesso identificandosi con le vittime. Se c’è la possibilità di individuare vittima e oppressore diventa molto difficile non prendere posizione. I social, inoltre, hanno purtroppo deformato la nostra capacità di esprimerci, rendendo queste situazioni di agone democratico molto facilmente strumentalizzabili.
Quindi l’attuale complessità della pubblica opinione censura in qualche modo anche la libertà del museo.
È quasi una necessità. Il Museo deve fare attenzione a mantenere una posizione neutra, non soltanto per paura di attacchi nell’agone mediatico.
La prima mostra del nuovo programma museale è dedicata a Rossella Biscotti, nello spirito di un attento equilibrio di genere, che rientra tra i presupposti per lei più rilevanti. Seguiranno gli eventi inseriti nell’ambito del festival di fotografia Exposed (prima edizione, dal titolo New Landscapes – Nuovi Paesaggi, in corso dal 2 maggio al 2 giugno 2024, ndr) con la personale di Paolo Pellion di Persano e l’esposizione diffusa tra Castello di Rivoli, OGR e GAM Torino, nel segno della connessione di territori e istituzioni. Nature vibranti, Sul residuo e la rinascita articola, invece, un altro importante caposaldo del suo programma rappresentato dall’interdisciplinarità. In ottobre vedremo finalmente il primo progetto espositivo che porta la sua firma. L’attenzione è posta sull’arte che integra azione umana e incidenza del non-umano in una “collaborazione creativa”…
La mostra si articolerà intorno al rapporto con il non umano, con la natura e con le altre specie. Non ci riferiamo, in questo caso, alla tecnologia. Sarebbe estremamente complesso unire entrambi gli aspetti. Questa mostra si occupa, invece, di guardare alla relazione tra l’uomo e gli altri esseri in modo non gerarchico e antropocentrico. Gli artisti lo fanno in maniera simbolicamente molto convincente quando operano attraverso elementi su cui non hanno il pieno controllo, mettendo in questione la presunta superiorità antropica. Nella collaborazione l’autore umano non governa interamente il processo. La riflessione riguarda, quindi, la stessa posizione dell’uomo nel mondo, il controllo, il potere, la dominazione. Sono tutti aspetti importanti che tentano di raccogliere l’interesse di artisti e pubblico sull’urgenza della sopravvivenza dell’ecosistema. L’Antropocene finirà, l’uomo sarà estinto sulla terra, ma a me interessa di più cercare di visualizzare e comprendere attraverso il lavoro degli artisti quanto il nostro rapporto con la natura sia di interdipendenza e non di dominazione.
A quali strategie avete pensato per avvicinare il più ampio pubblico a queste intense investigazioni proposte dal Museo?
Per rendere il museo rilevante non basta che sia un luogo in cui andare a vedere una mostra. Serve, invece, offrire una varietà ampia di motivazioni diverse che interessano gruppi di persone diverse. Questo meccanismo si può ottenere con azioni di programma, toccando temi e questioni di interesse più generale, non solo quelle meramente storico artistiche. Oppure attraverso eventi, progetti e attività collaterali, di public program, attività educative. Ma la cosa più importante per me è se il museo riesce veramente a diventare un centro di alfabetizzazione per il futuro. Questo lo rende attrattivo per le persone che riconoscono l’opportunità di apprendere, interpretare e decodificare il mondo di oggi. Quindi non vado al museo solo perché l’educazione culturale mi impone di conoscere la storia dell’arte. Il pubblico deve essere piuttosto indotto a pensare che l’esperienza del museo è utile a comprendere l’impatto dei social sulla vita, a non essere passivo nella comprensione dell’intelligenza artificiale, o a decodificare le immagini in maniera più efficace e veloce in modo che non rimanga preda di propagande di qualsiasi natura. Il destinatario della proposta museale deve riconoscere l’effetto positivo sulla propria vita intellettuale ed emotiva.
Francesco Manacorda è stato Direttore Artistico della V-A-C Foundation (2017-22); Direttore Artistico di Tate Liverpool (2012-17), Direttore di Artissima (2010-12) e Curatore presso la Barbican Art Gallery (2007-09). Dal 2006 al 2011 è stato Docente presso il dipartimento di Curating Contemporary Art del Royal College of Art, Londra. Ha co-curato nel 2016 la Biennale di Liverpool e nel 2018 l’undicesima edizione della Biennale di Taipei.
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18/1/2024
GIANNI CARAVAGGIO. IN PRINCIPIO ERA L'IMMAGINE
TORINO | Galleria d'Arte Moderna - GAM | 1 Novembre 2023 - 17 Marzo 2024
La natura materiale e spaziale delle opere di Gianni Caravaggio farebbe dell’artista senz’altro uno scultore, anche se l’uso di elementi effimeri e il perimetro indefinibile dei corpi scultorei ne spostano subito i modi oltre le pratiche convenzionali del linguaggio. Al contrario, la forma, per Caravaggio, non è che la parola concreta di un atto poetico attraverso cui l’arte riconsegna lo sguardo al candore originario delle immagini, come se queste sbocciassero per la prima volta in occhi puri. Piccoli spostamenti di senso, contravvenzioni alla logica dei materiali, come in un blocco marmoreo che cede morbidamente sotto l’impalpabile pressione di una polvere bianca, trasmutazioni della materia che cristallizzano i vapori delle nuvole in pietre d’alabastro precipitate a terra, sono ciò che accade davanti a occhi increduli, rivitalizzati nella meraviglia delle immagini del mondo.
Al loro sorgere le immagini sono segnate da un duplice destino. Da una parte si osserva il prodigio della creazione, l’apparire iniziale della realtà come un enigma che si perpetua nel tempo. Basta guardarsi intorno e chiedersi come tutto ciò che esiste abbia avuto origine per cogliere in ogni cosa una luce diversa. Con questa domanda tenuta ben presente è come se l’intera scena della vita si ricreasse per noi ad ogni istante. L’attimo non sembra più un momento qualunque tra i punti del tempo, ma brilla in modo strano, come se non avessimo mai visto prima nulla di simile. L’altro destino è quello della caduta delle immagini nella massa compatta degli oggetti del mondo, perdute nello svolgere normale delle azioni e delle esperienze di tutti i giorni. Le forme poetiche di Caravaggio trattengono l’emozione vicino al luogo in cui avviene lo sdoppiamento dei destini, dove il presente è ancora sospeso tra la propria eterna creazione e l’inevitabile prossima caduta in ciò che appare.
Ha descritto le sue opere come eventi e atti poetici che creano originariamente immagine e luogo grazie alla capacità di suscitare stupore. Quali caratteristiche del suo lavoro lo rendono possibile?
Quello che tento di fare è formalizzare concretamente il minimo indispensabile per ottenere la massima stratificazione immaginativa. L’opera si basa sul dare fisicità, ovvero esperienza, a qualcosa che di natura rimane incerto. Quel margine di incertezza rappresenta la fecondità dello stimolo che viene testimoniata attraverso la qualità di di percezione riflessiva della forma. Nella natura positiva di quel campo incerto che si costituisce non è possibile decretarne un senso univoco, una verità unica di cui si possa parlare come di un tema. La verità, nel senso in cui la intendo, non è un’affermazione deterministica, ma un’evocazione di qualcosa che viene sentito, che provoca ascolto, osservazione, ovvero un movimento riflessivo. L’opera non propone un contesto di senso stabilito a priori, ma lo genera. Oggi si ha sempre più difficoltà a cogliere l’aperto, il polisemico, le parole tra virgolette il cui senso è inteso ma non espresso, ciò che è solo suggerito ma non definito e che richiederebbe empatia e sensibilità. La fluidità spesso invocata diventa nella realtà dei fatti un termine puramente ideologico.
La forma, nel mio caso, è un atto finale solo nella consegna pratica, ma in essa si mostra il momento di un inizio, un evento aurorale. Per questo motivo l’opera non ha un significato prestabilito. Il significato però sembra dietro l’angolo, se ne ha il presentimento, ma non giunge mai a palesarsi e cristallizzarsi definitivamente perché è abbracciato dall’aperto.
In Eppure sono solo qual è, ad esempio, il senso di quel “solo” o di “eppure”? L’installazione è costituita da un ananas in bronzo tagliato in spicchi e disposti così da essere accolto nella struttura rettangolare di uno spazio architettonico (angolo, spigoli e pavimento). È lei che afferma di essere una sola nonostante la divisione e l’apparente moltitudine, evocando l’ambiguità tra l’uno e il molteplice, tra singolarità e pluralità disseminata nello spazio. L’ananas d’altronde oggi sembra essere di casa, ma in realtà è l’estraneo che viene dall’ “oltremare”. Una domanda sull’ambiguità della percezione di sé, sulla questione tra apparenza e realtà o sui paradossi spazio-temporali che oggi vengono captati non solo da immaginazioni poetiche ma anche da questioni di fisica quantistica. Il titolo potrebbe suggerire un significato autobiografico, ma non sono interessato alle questioni che implica l’autoritratto, mi interessa piuttosto una riflessione che può valere per chi osserva e si osserva. Spesso il divario tra aspetto dell’opera e proposizione del titolo contribuisce ad aprire quell’abisso che serve all’immaginazione per espandersi. D’altro canto non dico che non esiste un senso intenzionale, anzi, direi che il senso è di una precisione meticolosa, ma in questo suo essere meticoloso (al contrario del significato) crea una precisa apertura al movimento creativo della mente.
La Nuvola che mostra i propri sentimenti espone, attraverso i tagli che dissezionano la pietra, letteralmente la propria interiorità. Esporre la propria interiorità abitualmente viene inteso come metafora delle emozioni. In questo senso l’opera può anche funzionare come allegoria di un senso esortato, il suo movimento che crea attraverso i ritagli mossi in una direzione è come se fossero stati trascinati dal vento, un po’ come le linee nelle nuvole di Bramante. L’energia dell’opera definisce un fondo iniziale che suscita nuovi percorsi di evocazioni e di pensiero. Le cose del mondo da questo punto di vista possono essere continuamente ri-iniziate e ri-pensate.
Quanto è dovuto a una sua necessità personale e quanto, invece, sente come artista la responsabilità nei confronti del pubblico? Mi riferisco al compito di purificare lo sguardo, di far riscoprire in chi osserva l’arte l’incanto perduto davanti all’immagine del mondo.
Sento una particolare responsabilità, forse anche nel senso di una missione. Invito il pubblico nella responsabilità di ciò che inizia da me, vedendomi come mediatore di quell’inizio: se un evento originario accade in me, ho fiducia che potrebbe accadere anche in chi osserva. In sostanza non mi pongo come un artista, quanto, piuttosto, come spettatore di fronte a ciò che inizia. Potrei dire di aver maturato una certa esperienza come “professionista” dell’arte, ma questo è poco autorevole quando mi approccio ad una intuizione ogni volta come una qualunque persona che coglie un lampo, una scintilla, che poi amplifico, sperando che questo miracolo dell’inizio si avveri in chi osserva. La differenza la fa la fiducia che quel lampo, quella scintilla sottovoce abbia senso: questo è la responsabilità. La messa in forma è, in un certo senso, l’apostolato tangibile di ciò che la inizia, un ragionamento, un’evocazione, il viaggio sperimentabile grazie alla percezione dell’apertura che vorrei far intuire, declinata in varie immaginazioni attraverso il linguaggio concreto che chiamiamo scultura.
La mostra in corso presso la GAM di Torino, Per analogiam, evoca il principio medievale dell’analogia tra enti terreni e sfere superiori per espandere il respiro della scultura – ma sarebbe meglio dire dell’arte – dalla sua singolarità concreta alla dimensione cosmica. Tuttavia, nelle sue opere il rapporto tra i due piani non si presenta certamente nella forma classica di un universo ordinato tra microcosmo e macrocosmo. La sua analogia non è un teorema, quanto piuttosto il mezzo per uno slancio dell’immaginazione, un canale di comunicazione che avvicina le stelle alla terra e innalza la fronte tra gli astri. Cosa succede nel cuore, nella mente o nello spirito dell’uomo seguendo le tracce della sua analogia?
Il mio lavoro richiede tempi lenti e riflessivi, esso si costituisce nella contemplazione. L’atto contemplativo è della singola persona, anche se non è puramente personale in quanto fa emerge ciò che si trova nel nostro profondo, unendosi a ciò che si coglie nella visione esterna. In questo modo si crea una costellazione di insieme in cui opera e fruitore si trascendono a vicenda: l’opera si supera nell’essere mero oggetto, mentre il fruitore oltrepassa l’abitudine che ha di se stesso e della realtà.
Con la Coperta dell’eremita, il mistico si avvolge di un manto di stelle. La solitudine rende per natura mistici nel bene e nel male. Stare soli con se, con la natura, non è facile. La prima versione della coperta era pensata come lavoro permanente per l’Eremo di San Giovanni all’Orfento a Caramanico Terme nel 2017, praticamente una nicchia scolpita nella parete di una montagna che si affacciava sul paesaggio e sul cielo. Ho lasciato la coperta nell’Eremo in testimonianza dell’esperienza dell’eremita, la sua visione delle stelle con cui si copre nel freddo della notte. Qualunque passante ne avesse avuto bisogno avrebbe potuto adoperarla per scaldarsi. Nella riproposta di Torino ho ricamato la costellazione stellare sopra la GAM del 31 ottobre 2023 alle ore 18, coincidente con l’inaugurazione della mostra, l’inizio di questo tempo. L’eremita si apparta per accogliere la compagnia celeste che lo scalda, e questo non lo fa per se ma per il mondo intero. Un augurio per ogni visitatore della mostra.
La coperta dell’eremita concentra una moltitudine di eventi e suggestioni, una risonanza inattesa tra cielo stellato e una cosa che è infatti un oggetto d’uso nella sua forma contenuta. Potremmo forse parlare di bellezza per questa proliferazione dell’immaginario nell’immaginazione. Ogni mia opera viene predisposta per essere un seme, ma non può sbocciare senza il fermento dell’immaginazione. Ecco cosa può essere bello: ravvivare la pigrizia della mente.
A proposito dei teoremi e delle metafisiche ho potuto sviluppare gli anticorpi necessari contro la codificazione. Credo di non avere né tematiche né forme stilistiche particolari, anche se comunque non sono immune da una lettura classificante. Ma sono problemi da poco rispetto a quello più rilevante e di estrema importanza che è di creare senso, il che è come costituire una casa per chi guarda.
Il senso è il contrario di quello che si definisce come tema, perché il tema è univoco, ed è quello che oggi si pretende sempre più nella ricezione dell’arte: la comodità dell’univocità del significato. Il senso è invece qualcosa che apre verso un campo dell’immaginazione da definire ogni volta di nuovo, esso dà casa alla percezione immaginativa. D’altro canto, come dicevo prima, vi è una certa attenzione e precisione quasi investigativa nel disegnare un inizio. Quell’inizio che potrei descrivere con l’evento dello stupore lo considero come il mandato per fare qualcosa e non nulla, che mi destina in veste di un fondo motivazionale imperscrutabile. Nel suo attuare l’inizio l’opera d’arte non può essere definita da un mandato istituzionale. Il mio mandato rivelatorio è nascosto negli interstizi del reale, l’incertezza di un momento poetico a cui do corpo riflessivo. Ogni volta questo corpo mi stupisce per la sua spazialità che risuona in analogia con i fenomeni di una dimensione cosmica. La percezione non rimane entro i limiti della dimensione domestica o sociale, perché questa si abbraccia a una sfera cosmica, come se disvelasse e puntasse sensibilmente ciò che la trascende. Se dobbiamo parlare di metafisica, non va intesa tanto a livello filosofico, quanto invece nel senso dechirichiano, definito dalla capacità di posare uno sguardo nuovo su tutto ciò che appare.
Gianni Caravaggio è nato a Rocca San Giovanni (CH), nel 1968. Vive e lavora a Milano e a Sindelfingen (Germania) dove è cresciuto fino al 1990. Dopo gli studi in filosofia all’Università di Firenze, Milano e Stoccarda nel 1994 si è laureato all’Accademia di Belle Art di Brera. Le differenti soluzioni formali e materiali delle opere sintetizzano un valore allegorico e evocativo. Le opere permettono la creazione di senso anche attraverso la proposizione del titolo coinvolgendo l’osservatore con la sua immaginazione e la sua percezione. L’artista definisce le sue opere come “Dispositivi per atti demiurgici”.
Per analogiam è la sua ultima mostra personale antologica, in corso fino al 17 marzo 2024 alla GAM di Torino e a cura di Elena Volpato.
L’artista attualmente lavora con Galerie Rolando Anselmi Berlino e Roma, kaufmann-repetto Milano e New-York, Gallery Andriesse-Eyck Amsterdam.
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7/12/2023
SENSING PAINTING. RIFLESSI DELLA VITA IN UN LAGO DI PITTURA
RIVOLI (TO) | CASTELLO DI RIVOLI | 27 OTTOBRE 2023 – 28 GENNAIO 2024
La mostra Sensing Painting al Castello di Rivoli è un effetto del nuovo mecenatismo neoliberale che vede le banche sempre più interessate nella tesorizzazione dei patrimoni artistici e, con buoni meriti, nella promozione culturale. Nel caso della Fondazione CRC prevalgono il sostegno a nuove generazioni di autori, che in molti casi non superano i 35 anni (il più giovane in collezione è il romano Pietro Moretti, classe 1996), e una particolare attenzione alla migliore pittura del territorio piemontese. Non mancano artisti provenienti dal resto d’Italia e internazionali, grazie alla vicinanza della Fondazione al programma espositivo del Museo di Rivoli e alla commissione per le acquisizioni composta dal direttore uscente Carolyn Christov-Bakargiev, da Chus Martínez dell’Art Institute presso l’Academy of Art and Design FHNW di Basilea e da Guido Curto, attualmente alla direzione del Consorzio delle Residenze Reali Sabaude.
Poche osservazioni sull’allestimento della mostra servono a chiudere rapidamente la questione di scelte apparse sbagliate. Il sovraffollamento in un’unica sala di circa novanta opere impedisce di concentrare l’attenzione su ognuna, tanto più che in qualche caso sono posizionate troppo in alto per essere osservate accuratamente. Il rosa scuro alle pareti acuisce la tesa e accentuata diversità tra i molti dipinti, che avrebbero forse avuto bisogno, per convivere, di un’ambientazione più neutra che ne stemperasse la forte eterogeneità.
Non resta, quindi, che isolare il valore delle singole opere. Claudia Comte e Anne Imhof sono tra le artiste internazionali protagoniste di splendide mostre tenute in anni recenti presso il Museo di Rivoli. Imhof propone un ritratto seriale che traduce le modalità della Popart in un’ossessione psicosessuale. Il narcisismo tormentato dal culto della magrezza (anche l’iconica Coke diventa insistentemente diet-diet-diet) espone al rischio della malattia, che diventa oggetto di una morbosa attrazione sessuale, resa esplicita nella seducente apertura delle lebbra della modella, a metà tra la minaccia di un morso e un invito al sesso orale. Le sbavature serigrafiche della stampa in bianco e nero rendono ancora più drammatica la ripetizione del volto.
Anche NUS (NOC/NUT) di Lin May Saeed è stata esposta per un lungo periodo al Castello nell’ambito della rassegna Espressioni. Una coppia di primitivi è intenta a incidere disegni sulla parete di una caverna scavata nel polistirolo, mostrando il mito della nascita magico-tribale della rappresentazione, all’origine della loro stessa esistenza in quanto opera d’arte.
Fatta eccezione per pochi lavori, nella Collezione domina il linguaggio pittorico. La pittura ha un rapporto speciale con l’uomo. Le teorie estetiche antiche definivano le rappresentazioni artistiche sulla base del concetto di imitazione. L’arte era essenzialmente “mimesis” del reale. Oggi il principio mimetico è diventato campo di ricerca per le tecnologie cibernetiche che mirano a replicare il pensiero e la capacità di apprendere di un essere umano. La pittura, invece, non ha mai imitato l’uomo, perché da sempre gli è identica. Non seleziona una facoltà umana per duplicarne il funzionamento. Nella pittura vivono unite la paura, la bellezza, le psicosi, la materia e la ragione, il corpo e i sensi, seduzione, orrore, estasi, con tutte le finezze della complessità umana. I ritratti di Rembrandt sono immagini vive, così come lo spirito si sente palpitare anche negli oggetti inanimati delle nature morte di Chardin. Solo perché è identica all’uomo e non lo imita con gli strumenti di una tecnologia la pittura è un essere senziente.
Nell’immaginazione dipinta l’esperienza umana esplora se stessa. Le figure di Barbara De Vivi, trasparenti come drappi sovrapposti di seta finissima blu e verde increspati dal vento, risalgono una fonte dal sogno al mito. Due personaggi evanescenti in primo piano, assorti nella loro colazione su un prato, incorniciano la scena centrale dove un gruppo di bagnanti si fonde con l’acqua e il paesaggio. L’immagine culmina nella cuspide luminosa del cacciatore Atteone, trasformato in cervo dalla dea Artemide per vendicarsi d’essere stata sorpresa nuda durante un bagno, mentre viene braccato dalla muta di cani che tra poco lo divorerà. Il racconto è probabilmente quello scolpito nella splendida fontana della Reggia di Caserta, nel cui ninfeo sarebbe così da rintracciare il ricordo della fantasia acquatica evocata dalla piscina che dà il titolo all’opera.
La figura dipinta da Guglielmo Castelli è sciolta insieme alla sua ombra in una torbida solitudine, come un’anima riflessa in un acquitrino. Sui colori fradici di angoscia galleggia una lettera richiusa, forse ciò che ha gettato l’anima nello sconforto. Alle spalle del personaggio un demonietto traspare attraverso il liquido, che scorre copioso oltre la cornice invadendo lo spazio.
Anche l’egiziana Anna Boghiguian chiazza di colori acerbi una città dominata da cupole orientaleggianti circondata da un cimitero fitto di lapidi. Sul paesaggio di Andrea Massaioli striscia invece il corpo allungato e fluorescente di una gigantesca lumaca. Più che una visione onirica o il demone totemico di un luogo, nel simbolo prende corpo il lento e fluido incanto di chi osserva da lontano l’aurora notturna attraversata da un orizzonte fosforoso.
Grazie alle sue scelte, la raccolta della Fondazione CRC diventa anche un’occasione per osservare in che modo la pittura si sta trasformando, come e perché resiste nonostante tutto, mantenendo un deposito analogico di esperienze in cui l’uomo può tornare a cercare se stesso sotto qualunque assedio cibernetico e digitale presente e futuro.
Sensing Painting
Opere dalla Collezione d’arte della Fondazione CRC
A cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria
In collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo
27 ottobre 2023 – 28 gennaio 2024
Castello di Rivoli, Secondo piano, Sala 18
Info: www.castellodirivoli.org
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12/6/2023
EXPOSED. TORINO FOTO FESTIVAL. LA FOTOGRAFIA COME NON L’AVETE MAI VISTA
TORINO | PREVIEW MAGGIO 2024
Perché un festival sulla fotografia a Torino? Il mezzo non ha certo più bisogno di approvazione tra le arti della cultura alta. Anzi, non solo ha ricevuto un doveroso riconoscimento, ma è stato anche già consumato, se si guarda alla diminuita attenzione che fiere d’arte, mercato ed esposizioni accordano a questo specifico medium dopo un periodo di acceso interesse. Rimane poi il problema della natura della fotografia, prima alterata dalla postproduzione digitale, ora raggirata dalla facilità con cui le tecnologie riescono a generare immagini in totale autonomia. L’intenzione virtuosa è forse quella di creare un’associazione identitaria tra luogo e prodotto di ricerca o culturale, un po’ come Modena per i motori e Firenze per il Rinascimento. Con EXPOSED – Torino Foto Festival, la Città si candida dunque a diventare capitale europea della fotografia, secondo le dichiarazioni del direttore Menno Liauw, che si lascia sfuggire l’ambizioso obiettivo di scalzare il ruolo centrale di Parigi.
Il nuovo Festival si svolgerà nel mese di maggio del 2024, con il nucleo principale di iniziative inaugurate tra il 2 e il 5, ma verrà preceduto già nel corso di quest’anno da alcuni eventi di prospettiva internazionale, fino alle anticipazioni italiane di novembre nell’ambito della settimana torinese dedicata all’arte contemporanea, in collaborazione con Artissima, C2C Festival e CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia.
Vista l’ampiezza e l’articolazione del progetto, che punta a collocare la Città nel nodo di una vasta rete di relazioni europee tra istituzioni pubbliche e private, la sensazione è che organizzatori e promotori possano coronare il forte impegno con il successo.
Il diagramma spaziale del Festival mostrerebbe un ventaglio di traiettorie che partono dalle città di tutti i Paesi d’Europa per convergere su un intreccio più fitto di linee in corrispondenza di Torino. Qui verranno coinvolte pressoché tutte le istituzioni culturali della città, alcuni spazi indipendenti e ThePhair, la fiera cittadina dedicata esclusivamente alla fotografia.
L’attore principale dei collegamenti internazionali è il programma Futures, piattaforma che riunisce in 19 importanti istituzioni artistiche europee l’attenzione e l’indagine estesa sul mezzo fotografico, guidata da Liauw e dall’artista Salvatore Vitale, che si affiancherà anche nella direzione di EXPOSED. La torinese CAMERA è, al momento, l’unica realtà italiana a farne parte, ma la piattaforma è in costante crescita.
Gli eventi legati al Festival saranno innumerevoli, tra mostre, conferenze, simposi, programmi educativi e molto altro. Vitale annuncia una estesa indagine sul concetto ampio di fotografia, da una ricognizione storica (la Galleria d’Arte Moderna di Torino conserva uno dei primi dagherrotipi scattati in Italia, una ripresa della Chiesa della Gran Madre risalente al 1839) ai più recenti sviluppi tecnologici di sofisticazione dell’immagine. E qui si innesta il dilemma sulla definizione del mezzo. Perché lo slittamento semantico apparentemente ovvio tra fotografia e immagine non è così scontato. Se tentassimo per capriccio una delimitazione potrebbe venirci in aiuto la radice etimologica del termine. “Fotografare” significa, dal greco antico, “scrivere con la luce”. Il sostantivo “fotografia” si può leggere anche come “scrittura della luce”, da cui la fascinazione perfino esoterica per la tecnica quando cominciò a diffondersi nell’Ottocento, vista come una sorta di scrittura automatica della Natura capace di rappresentarsi in se stessa grazie al proprio linguaggio luminoso senza l’intervento del pittore. Le manipolazioni digitali o le simulazioni oggi possibili con le intelligenze artificiali non sono scrittura con la luce. La fotosintesi clorofilliana delle piante, processo fotosensibile, è più vicina alla fotografia di quanto lo sia un’immagine generata al computer.
Ma è proprio questa la finezza e la complessità del dibattito che si articolerà nell’esteso programma del Festival. Energicamente prolifico di collaborazioni ed eventi, EXPOSED ambisce a offrire ogni anno una ricapitolazione enciclopedica sulla fotografia. Le parole d’ordine annunciate dai direttori sono scoprire, esibire, incontrare, esprimere, sperimentare, esporre. La prima edizione di EXPOSED si intitolerà New Landscapes – Nuovi Paesaggi, dedicata a un soggetto centrale per la tradizione fotografica italiana. Nuovi modi producono nuove visioni soggettive, mentre all’esterno anche il paesaggio cambia velocemente nel contraddittorio rapporto tra ambiente e tecnologia. Intorno a questo tema si mostreranno i destini incrociati di fotografia e spazio di vita.
EXPOSED. Torino Foto Festival
Direzione Artistica: Menno Liauw e Salvatore Vitale
Prima edizione: New Landscapes – Nuovi Paesaggi
2 maggio – 2 giugno 2024
Vernissage: 2-5 maggio 2024
Info:
Fondazione per la Cultura Torino
Via Meucci 4, Torino
+39 011.01133915
fct@fpct.it
www.fpct.it
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28/6/2023
ARMED EPIGENETICS. LA BANALITÀ DEL POSTUMANO
TORINO | GAGLIARDI E DOMKE | FINO AL 14 LUGLIO 2023
Niente è più ideale del futuro. Il tempo che deve ancora accadere è un oggetto continuamente modellato senza poter toccare alcuna materia reale, totalmente compresa nel cerchio infinito dell’attimo presente. La storia sta però subendo una tale accelerazione che il futuro collassa quasi su di noi, contraendo sempre di più la distanza tra l’informazione e l’immaginazione. Quanto tempo occorse perché il sottomarino fantasticato da Jules Verne diventasse realtà? Quanto ne trascorse tra gli studi sugli uccelli di Leonardo e il primo volo dell’uomo, tra il viaggio sulla luna di Melies e il “grande passo per l’umanità” di Neil Armstrong? Il laboratorio fantascientifico di Armed epigenetics che Luisa Raffaelli crea nelle sale della Galleria Gagliardi e Domke è un cortocircuito temporale, un luogo in cui l’avvenire fluttua in uno stato continuamente anticipato dagli eventi storici e dalla produzione della tecnoscienza presenti.
Mentre Raffaelli lavora nel suo laboratorio allegorico dove si preparano gli umanoidi destinati a popolare la prossima Terra, Elon Mask ottiene l’autorizzazione a sperimentare un microchip innestato direttamente nel cervello, l’intelligenza artificiale simula le possibilità di combattimento di guerre già in corso, alcuni embrioni umani sono stati generati a partire da cellule staminali. Il futuro dell’artista è quasi una fotografia del presente. Oppure la velocità del presente sta superando ogni immaginazione, forse privandocene e lasciando al suo posto solo confusione.
Sulle pareti della Galleria, Raffaelli affigge i progetti degli esseri che stanno incubando nelle vasche amniotiche, prototipi di corpi umani potenziati organicamente e ciberneticamente con protesi e innesti che hanno il solo scopo di aumentare esponenzialmente la capacità offensiva delle nuove creature. La muscolatura dei loro corpi è stata portata al suo massimo sviluppo per rispondere con immediatezza al carico di forza e violenza per le quali i cyborg sono stati programmati. La tecnologia genetica li ha dotati di funzioni provenienti dal regno animale, ma le ali, o gli arti, o la testa, sono sostituiti da sofisticate armi comandate dagli stimoli nervosi del corpo organico di base. Gli umanoidi sono quasi tutti acefali, perché dalla funzione alla quale sono destinati è stata opportunamente soppressa ogni capacità di giudizio e pensiero, con il conseguente annullamento della personalità, della soggettività e di ogni identità autonoma. Anche il cervello è tra gli organi sezionati e isolati per essere manipolati singolarmente. Gli umanoidi dovranno agire come quegli insetti la cui vita è completamente subordinata alla sopravvivenza della specie. Ma di quale specie?
Il mondo in cui vivranno (vivremo; viviamo) è il compimento epocale di quello che Hannah Arendt aveva definito come la “banalità del male”: cieca amministrazione dello scontro di forze, priva di psicologia e di profondità spirituale, incapace di responsabilità, volta solo all’esecuzione dell’ordine impartito e all’esercizio irriflesso della potenza. Se in questa epica del male vista dalla Arendt travestiamo la potenza con la maschera dell’edonismo, ecco che diventa immediata l’analogia con la nostra società.
Gli uomini prodotti dalla scienza che Raffaelli profetizza nei propri incubi sono esseri a due dimensioni preparati per lo scontro di forze in cerca di spazio da dominare, nati per dispiegare con la massima energia tutto l’armamentario innestato nella propria carne. A favore di chi o di cosa resta nascosto, forse non esiste più neanche un potere centrale trincerato dietro la barriera offensiva e l’intera esistenza si ridurrà a una lotta individualistica di tutti contro tutti.
C’è però un suono di fondo in questo incubo, forse inconscio anche per l’artista, una sorta di compassionevole melodia per queste creature, il cui destino, privato scientificamente del libero arbitrio e della capacità di scelta, non è più un loro possesso. Va anzitutto notato che le macchine-umanoidi da attacco sono di sesso maschile. In un quadro di manipolazione genetica così profondo non ha forse più alcun senso parlare di generi, ma la struttura corporea e la muscolatura lasciano intendere che non c’è traccia di caratteri femminili. Il momento dell’incubazione, poi, avviene in una sorta di silenzio amniotico che circonda la genesi, con una grazia della forma che può essere concepita solo nell’utero materno. Gli esseri, le loro parti organiche e perfino le armi crescono all’interno di poetici gusci, immersi in un liquido trasparente che li nutre e protegge nelle fasi dell’evoluzione embrionale, quando ancora sono teoricamente vulnerabili. È forse in questo deposito invisibile di grazia femminea che la mostra di Raffaelli lascia ancora sperare.
Non c’è nulla che possiamo immaginare che non sia già sulla traccia del suo avverarsi. Nulla se non l’imponderabile sorte al di là della morte, la nostra stessa estinzione che non siamo in grado di pensare. Gli umanoidi sono armati fino al cuore per conservare la propria esistenza, senza sapere che la vita che difendono con tutta la violenza di cui sono attrezzati resta il vero miracolo.
Luisa Raffaelli. Armed Epigenetics
18 maggio – 14 luglio 2023
Gagliardi e Domke
Via Cervino 16, Torino
Orari: martedì – venerdì, 15.30 – 19.30
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5/6/2023
PERFECT BEHAVIORS. IL CALCOLO FUORI CONTROLLO DELLA LIBERTÀ
TORINO | OGR TORINO | FINO AL 25 GIUGNO 2023
Di quanto controllo hanno bisogno le azioni umane? Quale grado di libertà è necessario sacrificare a favore della sicurezza sociale? Sono domande alle quali un’intelligenza, artificiale o naturale, non può rispondere, perché riguardano una sfera di valori non quantificabili. La questione etica si impone quando i poteri amministrativi ed economici fanno largo uso della tecnologia per aumentare indefinitamente la potenza del controllo. Gli strumenti di cui si servono rimangono invisibili per conservare l’illusione di un movimento libero nello spazio della vita sociale, mentre la tecnologia nascosta ci insegue costantemente. La mostra Perfect Behaviors, progetto di OGR visitabile fino al 25 giugno, ci porta in questo spazio ibrido di codici informatici che invadono la realtà, all’interno del flusso calcolatore oltre lo schermo dell’occhio digitale.
L’utilità di questi sistemi riguarda la sicurezza – valore indurito della retorica politica –, lo studio delle abitudini di consumo per adattare l’offerta pubblicitaria alle esigenze personali, il comfort e l’intrattenimento o la pura ricerca. L’impressione è che si sia perso qualcosa in modo impercettibile, come nell’assuefazione a un veleno somministrato in dosi sempre più massicce.
Il libero arbitrio non è scientificamente misurabile, ma i comportamenti possono essere oggetto di calcoli statistici sempre più precisi. Mentre aumenta la potenza di elaborazione dei dati si costruiscono infrastrutture per condizionare le azioni e diminuire il loro margine di imprevedibilità. Un corridoio stretto tra due alte pareti concede poche possibilità di movimento perfettamente definite: in avanti, indietro, oppure fermi al suo interno. È il caso dell’installazione Sociality di Paolo Cirio. Le pareti del suo corridoio sono ricoperte da una riproduzione confusa di grafici e diagrammi indecifrabili per l’occhio umano, ma non per i supercomputer che osservano e analizzano tutto quello che avviene sulle piattaforme informatiche.
Ogni aspetto della vita all’interno della collettività viene matematizzato e trasformato in flussi di informazioni. Grazie a questi dati è possibile creare dei modelli virtuali su cui si basano le previsioni dei comportamenti di massa. Nel video Tribes di Universal Everything si muovono sciami di individui guidati dagli algoritmi, sorvegliati dall’alto di una prospettiva universale. I gruppi continuano a sciogliersi e ricompattarsi in formazioni variabili, secondo traiettorie geometriche, oppure replicando matematicamente il volo armonico degli stormi di uccelli, le mutazioni organiche degli aggregati cellulari o la dinamica casuale e disordinata delle molecole di gas.
Eva e Franco Mattes, che nel 2001 lanciarono un virus dalla Biennale di Venezia alla quale erano stati invitati, continuano le loro azioni sovversive all’interno di specifici sistemi con funzione pubblica. I video in mostra raccontano le testimonianze dei dipendenti di Facebook addetti alla moderazione dei contenuti. Le pressioni subite tra direttive aziendali e responsabilità decisionale sulla censura, unite al ripetuto e quotidiano esame dei messaggi disturbanti pubblicati dagli utenti della piattaforma, creano un ambiente psicologico nocivo. I racconti producono un forte contrasto con la modalità del make-up tutorial scelta per la loro divulgazione, una strategia adottata nella realtà da alcuni attivisti per mascherare i messaggi di denuncia aggirando i controlli.
Anche il sabotaggio di James Bridle in Autonomus Trap 001 è un’azione simbolica di resistenza. L’opera evoca scenari futuri di lotta tra uomo e macchina ormai nemmeno troppo fantastici. L’intelligenza artificiale di un’automobile a guida autonoma viene ingannata con una falsa segnaletica stradale e costretta all’immobilità. Il cerchio di sale che la imprigiona è un simbolo sacro che viene da un passato lontanissimo della spiritualità umana.
Le emozioni fondamentali dell’uomo uniscono le altre due installazioni in mostra, ma con segno inverso. Amore e morte conservano tenacemente uno spazio di imprevedibilità che sfugge al controllo esteso sull’intera superficie del mondo. L’installazione di Brent Watanabe San Andreas streaming deer cam riprende la grafica dei videogiochi sparatutto. Il bersaglio è un cervo intrappolato in una fuga senza via d’uscita che lo condanna a essere preda di una caccia infinita, con una violenza eterna di colpi sanguinari sull’animale, programmato per essere immortale, ma senza alcuna difesa.
Sopra il lungo tavolo da laboratorio dell’artista coreano Geumhyng Jeong sono invece accumulati pezzi inerti e circuiti di piccoli automi rudimentali dai volti umanoidi. Alcuni video proiettano la struggente storia della loro vita robotica quando vengono attivati. A coppie, le macchine cercano goffamente un approccio erotico, sfregando le proprie componenti nel lento e penoso sforzo di un amplesso amoroso irrealizzabile.
La necessità di correggere i comportamenti sociali è primitiva quanto l’istituzione del tabù. La tecnologia, nata per moltiplicare le energie e l’efficienza dell’uomo, ha raggiunto un’estensione e un potere tali da occupare il suo intero ambiente di vita. Gli artisti di Perfect Behaviors rendono visibile l’architettura tecnologica di quel potere, accedendovi per riprogrammare uno spazio di libertà possibile anche nel nuovo cybermondo.
Postilla: questo articolo è stato scritto dall’intelligenza artificiale di ChatGpt.
Perfect Behaviors. La vita ridisegnata dall’algoritmo
Universal Everything, Paolo Cirio, Eva e Franco Mattes, Brent Watanabe, Geumhyung Jeong, James Bridle
a cura di Giorgio Olivero
29 marzo – 25 giugno 2023
OGR Torino – Binari 1 e 2
Corso Castelfidardo 22, Torino
Orari: giovedì e venerdì, 18.00 – 22.00
sabato e domenica, 10.00 – 20.00
INGRESSO GRATUITO
Info: www. ogrtorino.it
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23/5/2023
PALERMO 1952-1992. QUARANT’ANNI D’AMORE TRA DUE ESPLOSIONI
TORINO | FONDAZIONE MERZ | 17 APRILE – 24 SETTEMBRE 2023
L’immaginario sulla città di Palermo può avere qualcosa di eccezionale: un luogo nella stessa regione di Scilla e Cariddi, con il sole mediterraneo che incendia la bellezza classica della Magna Grecia e il miscuglio architettonico arabo, normanno e barocco, l’intelligenza politica e spirituale dell’imperatore Federico II e quella acuta e sofisticata della Sicilia moderna. Ma Palermo brucia anche di dolore, di preghiera e di omicidi, di rassegnazione, fatalismo e lotta. È il dramma delle luci e delle ombre spinte in un contrasto feroce, come lo erano nella Natività di Caravaggio trafugata dall’Oratorio di San Lorenzo per mano della mafia e mai ritrovata, spiazzante allegoria di un contesto di criminalità. Come il bianco e nero delle fotografie della mostra Palermo Mon Amour, che la Fondazione Merz dedica alla città siciliana fino al 24 settembre.
La storia di Palermo dagli anni Cinquanta al 1992 si racconta negli scatti di cinque fotografi in una staffetta generazionale che inizia con i maestri Enzo Sellerio e Letizia Battaglia e continua con i più giovani Franco Zecchin, Fabio Sgroi e Lia Pasqualino. A lei appartiene la serie fotografica dal titolo che meglio rappresenta l’anima lacerata della città, quel La macchina dell’amore e della morte tratto dall’omonima pièce teatrale con manichini dadaisti di Tadeusz Kantor. Anche la storia di Palermo appare inceppata in un giro senza fine tra desiderio, soddisfazione e morte. La città vive tutto con energia estrema, nell’abbraccio di un intenso erotismo meridionale mentre sanguina dalle ferite ogni volta riaperte nelle violenze sulla sua carne.
I quarant’anni di vita del capoluogo sono racchiusi tra due deflagrazioni. La prima è scatenata dalle bombe atomiche del 1945 sulle città giapponesi (il titolo dell’esposizione cita il film Hiroshima mon amour di Alain Resnais). Dopo un momento di stordimento globale dell’umanità seguito allo scoppio, il mondo sopravvissuto è costretto a elaborare il trauma e a rigenerarsi. Iniziano gli anni della ricostruzione e della crescita economica, ma le velocità sono diseguali e i sud del mondo, compreso quello d’Italia, restano indietro. La raffica delle due esplosioni finali è invece quella che nel 1992 fece saltare in aria i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nell’arco temporale così segnato la vita dei palermitani si impasta nella cronaca locale, attraversa vicende che riguardano l’intera politica dello Stato, si innesta sulle tensioni mondiali. Il volto della città cambia ma alcuni suoi caratteri resistono tenacemente alla storia.
Palermo Mon Amour è un’appassionata autobiografia della città rispecchiata negli occhi dei suoi cinque fotografi. Viene voglia di abbracciarli tutti quei bambini che giocano e hanno fame, poveri, vivaci e non scolarizzati nelle foto di Enzo Sellerio (proprio il fondatore della casa editrice). Il clima è quello neorealista dell’immediato dopoguerra. Gli fa da contraltare a distanza uno scatto di Franco Zecchin che sembra la trasposizione contemporanea di un aristocratico interno tratto dal film Il Gattopardo di Luchino Visconti.
Quegli occhi di bambini sono uno dei tratti senza tempo della città su cui si ferma lo sguardo commosso dei fotografi. Ma l’altro universale palermitano è l’illegalità, il nemico interno capace di colpire con feroce spregiudicatezza. Letizia Battaglia intona la voce della denuncia, si politicizza con determinazione, mostra immagini crude con ostinata verità. In mezzo alla vita pulsante dei quartieri e dei mercati la cronaca racconta di attentati sanguinari e di arresti mafiosi. Zecchin ritrae la collega pronta a fotografare proprio sul luogo di un omicidio. In uno scatto di Lia Pasqualino si vede ancora, sempre immersa nella vita dei suoi paesani, mentre gioca con un degente dell’ospedale psichiatrico, altro toccante micromondo incastonato nel cosmo palermitano.
Gli studenti protestano contro il potere occulto della mafia alzando il pugno chiuso nelle manifestazioni. Le linee ideologiche della grande storia intercettano una forza opposta sul piano locale, priva di ideali politici ma determinata a imporre la propria supremazia contro qualunque interferenza libertaria, contro qualunque disegno sociale, che sia di destra o di sinistra. Al funerale di Giuseppe Impastato, attivista politico protagonista della lotta contro Cosa Nostra, era presente l’occhio di Zecchin; il 7 febbraio 1986 a documentare il corteo a cui parteciparono oltre diecimila studenti c’era invece Fabio Sgroi.
Ed eccolo il giudice Paolo Borsellino che guarda fisso nell’obiettivo di Sgroi al funerale del giovane Biagio Siciliano. Ha un’espressione di una forza totemica, di colui che conosce il bene e il male perché abituato a indagare chirurgicamente i cavilli della zona grigia che li attraversa. Nell’epoca del dubbio, della falsa propaganda, della “fine della metafisica”, dei complottismi e degli inganni iperrealistici delle intelligenze artificiali il sacrificio della propria vita mette a tacere qualunque incertezza sul valore di verità di un’azione.
La realtà di Palermo è autentica. Lo stato non ha ancora avuto la meglio sul contropotere mafioso, ma la città è un’altra. Vincono il mercato della Vucciria, i suoi quartieri, il dialetto rugoso e antico, la sua accoglienza calorosa, le sue meravigliose chiese dove le persone vanno a pregare ancora con devozione. Vince la sua gente che si fa amare.
PALERMO MON AMOUR
Enzo Sellerio, Letizia Battaglia, Franco Zecchin, Fabio Sgroi, Lia Pasqualino
A cura di Valentina Greco
17 aprile – 24 settembre 2023
Fondazione Merz
Via Limone 24, Torino
Info: +39 011 19719437
info@fondazionemerz.org
www.fondazionemerz.org
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10/3/2023
LARTIGUE. LA JOIE DE VIVRE CON LA FOTOGRAFIA
ALBA | FONDAZIONE FERRERO | 17 FEBBRAIO – 30 MARZO 2023
La mostra di Jacques Henri Lartigue alla Fondazione Ferrero suona un movimento tra l’andante con brio e il vivace. I ritmi veloci corrono tra i soggetti fotografati più che nello stile dell’autore, perché la fotografia, di per sé, contrasta il tempo, e quella di Lartigue in particolare è sempre studiata in un misurato equilibrio, puntata sulla vita che lo circonda accuratamente messa in posa per il suo obiettivo. I circa cento scatti di Jacques Henri Lartigue: L’invenzione della felicità, visitabile fino al 30 marzo, ritmano il concerto, intimo e gioioso, dell’intera vita dell’artista.
Vedere la realtà dall’inquadratura di uno dei più grandi fotografi del Novecento getta subito un’ombra sulla frenesia dell’immagine contemporanea, poco attenta alla bellezza ricercata dallo sguardo, al momento della scoperta nei dettagli del mondo, che appartengono a un’età ottica passata, prima che la produzione massificata di messaggi visivi iniziasse a scaraventarsi sulla percezione.
Quando il padre regala ad Henri la prima macchina fotografica lui ha appena sette anni. È il 1902, la storia procede spedita con la rapidità del progresso, delle scoperte tecniche e scientifiche, delle esposizioni internazionali per gli scambi commerciali a lungo raggio e dell’affermazione del benessere borghese. Si stanno già sviluppando i prodromi della cultura di massa, che tre decenni più tardi Walter Benjamin definirà “distratta”, perché dispersa e frammentata nella miriade di stimoli sensoriali della vita urbana. Ma l’epoca dell’adolescenza di Lartigue è ancora quella dell’ottimismo e dell’euforia, del miraggio spensierato della felicità per tutti garantita dalla produzione industriale e dai nuovi intrattenimenti, che si schianterà contro la prima Grande Guerra e la fine della Belle Époque. I suoi primi soggetti sono parenti e amici, allegri e vivaci nel dorato mondo dell’alta società, la novità delle automobili, gli esperimenti di volo che ricchi sfaccendati provano con velivoli rudimentali nei campi aperti. La percezione non era ancora distratta, la macchina fotografica, voluminosa e poco maneggevole, era anzi uno strumento che forzava e concedeva il raccoglimento dello sguardo alla ricerca di attimi eccezionali nella prosa della realtà.
Questo spirito positivo, dagli anni in cui Lartigue cresceva con la sua macchina fotografica in mano, sembra non averlo mai abbandonato. Gli album dei due periodi bellici non vengono sfiorati dalla tragedia. I ritratti continuano a sorridere, le occasioni sono una partita di tennis sullo sfondo di una villa di campagna, una giornata sulle piste innevate o su un litorale vacanziero. Lartigue ebbe certo il privilegio di un sicuro benessere borghese, ma questo non basta per determinare la gaiezza dello sguardo sul mondo. Piuttosto, il suo carattere era incline a quella felicità che divenne la cifra di un linguaggio visivo personale, come se il genio della Belle Époque gli avesse trasmesso la propria indelebile benedizione.
La leggerezza trasforma i corpi in segni. I bambini si tuffano nel cielo, i personaggi si slanciano per rimanere a mezz’aria in eterno. Perfino una signora tutta impellicciata che porta i suoi cani a passeggio per le vie parigine sembra un volatile con le piume pesanti goffamente atterrato sulla strada. Le loro forme aeree sono tenute in alto dalla levità dei sorrisi.
Quando nel 1963 John Szarkowski ne curerà la retrospettiva al MOMA di New York Lartigue verrà presentato come il maestro dell’“istante decisivo”, avvicinandolo al grande Cartier-Bresson. Lo scatto fatidico lartiguiano non è però mai improvvisato. Anche quando il ritratto ha un’espressione genuina, istantanea e intima come quello meraviglioso di Bibi (Madeleine Messager, la prima moglie), “sorpresa” nella toilette durante il viaggio di nozze, l’effetto è ricercato. Prima di essere riconosciuto come genio dell’immagine fotografica Lartigue era un noto pittore, con diverse partecipazioni ai Salon parigini. La stessa grazia delle trasparenze dei suoi colori compone i chiaroscuri saturi della fotografia. Spesso un disegno, un premeditato progetto, è alla base della messa in scena fotografica. Senza escogitare alcuna riflessione teorico-linguistica sul mezzo, Lartigue è consapevole che la rappresentazione è una costruzione. Non una figura ingannevole, come nei primi giochi con doppia esposizione che creavano scene di fantasmi, ma la messa in forma di quel sentimento di gioia aerea che sospendeva lui e il mondo più prossimo nell’amore della vita.
Anche l’amico Richard Avedon vola nel suo studio newyorkese in un improbabile episodio di riprese aeree. Dopo la retrospettiva al MOMA fu lui a cercare Lartigue e a consigliargli la pubblicazione di un nuovo diario della sua vita a partire dai numerosi album raccolti nei decenni. Diary of a Century sancisce la sua affermazione tra i grandi della fotografia. Nel frattempo, il colore aveva aggiunto un pizzico di ammiccamenti alle fotografie private e tra le commissioni che arrivavano dal mondo della moda. Nelle parole del curatore della mostra Denis Curti, Lartigue riesce a esprimere il massimo di sé quando tra lui e il soggetto si crea una relazione intima ed empatica. Questo sarà il segno personale dai primi giochi da bambino con il regalo del papà fino alle copertine delle riviste patinate.
Jacques Henry Lartigue
L’invenzione della felicità
a cura di Denis Curti
17 febbraio – 30 marzo 2023
Fondazione Ferrero
Strada di mezzo 44, Alba (CN)
Ingresso gratuito
Orari: giovedì e venerdì 15 – 19 / sabato, domenica e festivi 10 – 19
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29/12/2022
ON THE VERGE. FOTOGRAFIE OLTRE I LIMITI
TORINO | CAMERA – CENTRO ITALIANO PER LA FOTOGRAFIA | FINO ALL’8 GENNAIO 2023
Futures (EPP – European Photografy Platform) è una rassegna annuale nata dalla collaborazione di una rete di istituzioni europee con l’intento di sostenere giovani artisti emersi nel discontinuo panorama di mostre e premi dedicati alla fotografia. La torinese Camera è l’unica realtà italiana a farne parte. Fino all’8 gennaio 2023 gli spazi della sua project room ospitano On the verge (Nel limite), momento espositivo di un ciclo di eventi che riuniscono ogni anno le diverse figure protagoniste della rassegna, tra conferenze, periodi di formazione e mostre. I sette “fotografi” di On the verge usano il mezzo in senso ampio, mettendone in questione la definizione stessa, all’incrocio di traiettorie e livelli tematici che spaziano dai problemi sull’identità all’attenzione ambientale e alla geopolitica.
Quando si parla di libertà di essere e di agire gli oggetti della contesa non sono l’individuo, un’istituzione o un territorio, ma l’estensione e i gradi di permeabilità dei loro confini. Il limite conserva quello spazio mitico in cui la cultura continua la sua sfida con la selvatichezza della natura, con l’aggressività, la minaccia, la sopravvivenza. Giangavino Pazzola, curatore della mostra, articola l’esposizione su tre dimensioni del conflitto: Sulla politica, Sull’uguaglianza di genere e Sull’ecologia.
L’immagine politicamente impegnata presupporrebbe forse l’uso più tradizionale della fotografia, con rappresentazioni antagoniste o crudamente descrittive dei contesti sociali. I tre artisti raggruppati in questa sezione forzano invece i limiti del mezzo facendoli interagire con l’immagine digitale, la raccolta archivistica e la cronaca. Julia Klewaniec intreccia i piani linguistici dell’immagine e della parola, documentando visivamente l’uso corrente e inconsapevole di alcune espressioni della lingua polacca nate originariamente con valore dispregiativo, razzista e xenofobo. È il caso, ad esempio, del termine “murzyn”, equivalente di “negro”, diventato, tra le altre cose, il nome di un dolce al cioccolato, che la fotografa ritrae come una massa amorfa e scura somigliante a un cumulo di escrementi.
L’opera meno fotografica della mostra è l’installazione dell’inglese Mark Duffy, costituita da un archivio di reperti che documentano la propaganda politica in favore della brexit. La raccolta mette in evidenza l’uso ideologico di ogni livello di comunicazione, dal gadget popolare allo studio economico, allo scopo di creare consenso. L’ambiguità del messaggio viene complicata ulteriormente dall’interferenza di documenti fittizi all’interno dell’archivio, in un gioco che lega indagine sociologica e parodia, storia e analisi della formazione pubblica della conoscenza.
L’incidenza dei contesti geopolitici sulla psiche individuale prende corpo nelle fobie simulate da Cian Burke. L’artista rievoca la vicenda dello svedese Karl-Göran Personn, che in clima di guerra fredda trasformò la propria fattoria in un bunker. Anche se la paranoia nucleare, dagli eventi di Hiroshima in poi, non è mai stata infondata, Burk la traspone in un delirio, estremizzando la pressione delle tensioni storiche sulla vita del singolo. I fear that the macic has left this place è una serie di fotografie di architetture e manufatti improbabili con i quali immagina di allestire la propria fortezza. Il titolo allude al disincanto sulla realtà a cui la politica globale condanna l’uomo contemporaneo.
Sull’uguaglianza di genere espone i lavori di Pauline Hisbacq e Ugo Woatzi. La prima è impegnata a rinarrare l’emotività di figure femminili ritagliate dalle immagini di una manifestazione di protesta, da cui emergono microstorie di solidarietà, abuso, tensione e azione politica mediata dall’identità della donna. Woatzi, al contrario, fotografa l’impossibilità di riconoscersi in una categoria precisa. Una serie di ritratti rendono promiscua l’idea virile del “maschio” nelle diverse combinazioni di sesso genitale, genere di appartenenza, orientamento sessuale e fluidità estetica, fino a sovvertire ogni possibile identificazione.
Un paesaggio dalla bellezza mortale è il soggetto di Alice Pallot per la sezione ecologista della mostra, condivisa con l’artista Daniel Szalai. Gli scatti di Pallot provengono da una zona contaminata dagli scarti industriali di una fabbrica di zinco, che le istituzioni hanno salvato dalla desertificazione. Il bosco di conifere che ha riqualificato l’area nasconde tuttavia il residuo inquinante, la cui minaccia riappare nelle foto dell’artista. Szalai rappresenta invece un mondo in disfacimento, tecnicamente sgretolato, usando come materiale le riprese delle telecamere installate negli allevamenti intensivi, dove il ciclo vitale degli animali è minuziosamente regolato per incrementare produzione e profitto. La vita animale trasformata in fasci di informazioni ipercontrollate diventa metafora per l’inconfessata utopia capitalistica della società.
On the verge fa emergere un concetto di fotografia non limitato alla cornice e alla superficie bidimensionale, né all’esclusività di un mezzo, ma tagliato in ogni parte dai vettori di significato della realtà. Se mondo e immagine hanno confuso i propri confini, la fotografia può agire politicamente all’interno dell’immagine del mondo.
On the Verge (Nel limite)
Sette giovani fotografi europei
a cura di Giangavino Pazzola, con il supporto di Maja Dyrehauge Gregersen e Marta Szymańska
In mostra: Cian Burke (Irlanda, 1978), Mark Duffy (Irlanda, 1981), Pauline Hisbacq (Francia, 1980), Julia Klewaniec (Polonia, 1996), Alice Pallot (Francia, 1995), Daniel Szalai (Ungheria, 1991), Ugo Woatzi (Francia, 1991).
4 novembre 2022 – 8 gennaio 2023
CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia – Project room
Via delle Rosine 18, Torino
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28/11/2022
OLAFUR ELIASSON. NAVIGARE NELLA LUCE DELL'UTOPIA
RIVOLI (TO) | CASTELLO DI RIVOLI | 3 NOVEMBRE 2022 – 26 MARZO 2023
La prima mostra di Olafur Eliasson fuori dai confini della Scandinavia, terra d’origine dell’artista, si tenne nel 1999 al Castello di Rivoli. A distanza di oltre vent’anni Eliasson e il Museo si incontrano nuovamente con Orizzonti tremanti, curata da Marcella Beccaria per la Manica Lunga del Castello, dove fino al 26 marzo è possibile sperimentare un viaggio ad un tempo fisico e irreale, intellettuale e incantato, guidati dal miraggio di apparizioni colorate fluttuanti nel buio.
Il ritmo fondamentale della mostra è un moto ondoso che si propaga dall’acqua ai fenomeni ottici nell’oscurità, al movimento del visitatore nello spazio e alla sua estensione in un luogo al di là del reale. Il percorso tra le opere disegna una linea serpentina, come nella navigazione a vela per avanzare con il vento contrario. Ogni opera attrae i sensi con un canto visivo, circonda l’immaginazione per un tempo indefinito e la rilascia al miraggio successivo. Anche se scandito da diversi momenti, lo spazio di Orizzonti tremanti è un ambiente unico e organicamente denso, fuso nella continuità dell’esperienza vissuta dal soggetto.
Il primo lavoro esposto in mostra, Navigation star for utopia, è un oggetto formalmente instabile, tra astro artificiale, un primitivo strumento di navigazione o una geometria metafisica. La stella dà subito indicazione della meta da perseguire, il luogo inesistente dell’utopia, mentre il suo cuore luminoso scompone e trasfigura lo spazio circostante con contrasti di ombre e colori.
Sospesi a diverse distanze nella penombra si agitano fluidi orizzonti colorati, nebulose in espansione e contrazione, fioriture iridescenti. Quante volte gli antichi marinai, isolati ai larghi di oceani e mari, devono aver assistito allo spettacolo degli arcobaleni riflessi dalla superficie mobile dell’acqua sulle vele, o nel pulviscolo dell’atmosfera umida. Eliasson vuole risvegliare l’incanto delle prime apparizioni, di mondi nuovi, di un’esplorazione emotiva la cui dismisura resta in rapporto con la dimensione umana. Gli effetti che ottiene con le sue apparecchiature avrebbero potuto facilmente essere realizzati con la più semplice programmazione digitale. Eliasson ricorre invece a una tecnologia meccanica aderente alla realtà, di cui si serve per amplificare le qualità proprie di elementi naturali come l’acqua, la luce o le foglie. Partendo da questi elementi materiali, i suoi dispositivi sfruttano il rapporto tra percezione e immaginazione per dare vita a una forma primaria di evasione virtuale.
Il percorso è scandito da una serie di “kaleidorami”, macchine che scompongono la luce come i caleidoscopi e creano spettacolari effetti atmosferici intorno all’osservatore, procurandogli un momentaneo trasferimento fuori dalla realtà. Ogni kaleidorama è “il tuo” (il nostro): Elisasson chiede che ognuno se ne appropri in un susseguirsi di stati d’esperienza, dalla curiosità (Your curious kaleidorama) al potenziamento (Your power kaleidorama), dall’autocoscienza (Your self-reflective kaleidorama) all’incertezza (Your hesitant kaleidorama), attraverso la sensibilità del ricordo, quando è ormai trascorsa una parte del viaggio (Your memory of the kaleidorama), fino a completarsi nella totalità del vissuto (Your living kaleidorama).
Al fondo della traversata ci attende un compagno immaginario, Your non-human friend and navigator, fermo in quel punto da tempo immemorabile. Il suo arto magnetico indica il nord, connettendo l’intero spazio con le energie del cosmo, mentre il corpo di legno poggia a terra in asse con la stella per l’utopia, sul lato opposto della Manica Lunga. L’angolo formato tra la direzione del nord e l’asse spaziale della sala, ai cui estremi si bilanciano l’amico e la stella, misura un orientamento e segnala la rotta del ritorno. Se nella prima parte del viaggio il visitatore è trascinato dall’incanto del colore, in direzione contraria Eliasson svela i meccanismi di produzione delle scintillanti illusioni. I congegni per ottenerle sono parte integrante del significato delle opere, che espongono la loro nudità tecnica per unire meraviglia e conoscenza. L’artista non vuole che la bellezza inganni e confonda i sensi di osservatori passivi. Vuole invece esploratori vigili, che riconoscano nel momento costruttivo delle opere la facoltà propria dell’uomo di sviluppare una conoscenza pratica capace di rendere reale ciò che immagina.
Ogni kaleidorama attiva un processo di trasmutazione della luce. Il sistema si compone di un faro che illumina alcuni specchi rifrangenti immersi nell’acqua. La rifrazione divide la luce nei colori fondamentali dello spettro visibile, dal rosso al viola degli arcobaleni, secondo i principi della fisica ottica sperimentati da Newton. Un motore annesso alle vasche imprime un lieve moto ondoso alla superficie del liquido, che anima i raggi colorati proiettati su grandi schermi dove appaiono gli orizzonti tremanti. In altri kaleidorami gli effetti di continua dissolvenza cromatica sono ottenuti per mezzo di basi motorizzate su cui ruotano lenti, vetri colorati e foglie usate come membrane filtranti. Gli schermi di proiezione sono uniti a padiglioni specchianti che moltiplicano la diffusione del colore in una sfera di percezione immateriale confinante con la realtà fisica. Il processo di trasmutazione si compie quando i panorami di luce diventano tempo vissuto dal soggetto, avvolto dagli ectoplasmi policromi, moltiplicato anche lui negli specchi, ipnotizzato dalle astrazioni liquide.
L’utopia di Eliasson non è la meta impossibile di un’aspirazione ideale, ma lo spazio stesso della realtà trasfigurata. Più che indicare un altrove inesistente, la stella segnala il luogo reale che si trasforma nello scambio continuo tra percezione e immaginazione, fino a congiungere l’incanto incorporeo con la materia del mondo.
Olafur Eliasson: Orizzonti tremanti
A cura di Marcella Beccaria
3 novembre 2022 – 26 marzo 2023
Castello di Rivoli
Museo d’Arte Contemporanea
Piazza Mafalda di Savoia, Rivoli – Torino
Info: +39 011 9565222
info@castellodirivoli.org
www.castellodirivoli.org
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