14/1/2020
VALERIA VACCARO. RINASCERE DALLE CENERI DI UN'ILLUSIONE
Espoarte #108
Valeria Vaccaro, artista trentenne di Torino, corre con naturalezza sul filo teso da Duchamp tra la tradizione dell’Arte e la prosa banale degli oggetti semplici. Quegli oggetti, cioè, che, finita la loro capacità di essere utili per qualche uso, sono destinati alla sparizione dalla sfera dell’interesse e delle azioni umane. Gli oggetti scelti da Valeria sembrano stare li, fermi nella loro posizione sul bordo dell’Arte, indifferenti anche alla stanchezza del pubblico verso un’altra prova che si può essere artisti con qualunque cosa a portata di mano. Un pubblico, però, inconsapevole del raffinato inganno che l’artista gli sta preparando.
Quelli di Valeria, oltretutto, sono oggetti sfrontatamente inservibili. Nemmeno se tornassero nell’ambiente delle cose comuni ci si riapproprierebbe di loro con qualche utilità. La defunzionalizzazione di Duchamp era solo simbolica: orinatoio, scolabottiglie e ruota di bicicletta avrebbero potuto tornare al loro posto una volta soddisfatta l’intellettuale voglia di invocare il caos da parte dell’artista, se quei prodotti non fossero andati smarriti o sistemati sui piedistalli dei musei. Valeria, invece, li raccoglie da un destino comune, quello d’essere per lo più materiale combusto e consumato, inadatto agli usi per i quali erano stati creati. Usura e bruciature sono il segno di una temporalità che si aggiunge alla piatta presentazione delle cose, prendendo forma nella vaghezza di un racconto appena intuibile, velato. La cronaca sugli oggetti, d’altra parte, è poco importante, perché anch’essa potrebbe rivelarsi una vicenda di nessun conto, come una sigaretta accesa gettata imprudentemente sopra un pallet o su una cassa di legno. Più profondo, invece, è il formarsi del sentimento di un tempo che comanda la brevità nella vita delle cose. Che il tempo bruci ogni essere, anche l’uomo, sembra il pensiero assorto di un operaio sedotto dalla fiamma che la sua sigaretta ha provocato in un momento di riposo dal lavoro. Una riflessione appena più sofisticata può ricordare anche come il fuoco estingua le forme per rigenerarle nella materia, evocando il mito della Fenice che risorge dalla sua stessa cenere. Le parti incenerite assumono, così, un senso universale, adombrando una fatalità identica per l’uomo di ogni epoca, dall’antico pagano fedele ai miti a quello contemporaneo, e di ogni luogo, come suggerisce un’analogia con l’Oriente delle filosofie zen, quando il monaco ripara i cocci rinsaldati di una ciotola dorando le giunture per fissare nel manufatto l’immagine eterna della fugacità, dell’imperfezione e del cambiamento nelle cose terrene.
Intanto, il benevolo inganno che Valeria preparava per il pubblico assuefatto alla confusione organizzata dell’Arte Contemporanea si sta consumando. Se la stressante velocità sensoriale di oggi ha reso distratta la percezione, basta l’attimo di curiosità, il punto focale di un’attenzione più intensa, per accorgersi che gli oggetti osservati non ci sono affatto. Il loro posto è un’illusione. Davanti a queste opere la vista confonde il tatto, la forma viene trasformata erroneamente in sostanza, le sembianze in materia. Quei futili rifiuti di legno bruciato sono, in realtà, scolpiti nel nobile materiale del marmo, con tale perizia tecnica da parte dell’artista che qualcuno potrebbe pensare di estinguere quanto resta dei mozziconi di candela riaccendendoli, ovvero di sollevare con disinvoltura le casse vuote per gettarle tra gli altri rifiuti, trovando l’ostacolo di un peso massiccio, che al tatto risulta solido e freddo come la pietra.
Le sculture di Valeria sono un enigma stratificato e beffardo. Mentre sembrano contaminare il mondo dell’arte con oggetti umili, lo purificano tornando alla materia più nobile della tradizione; mentre disingannano sull’eternità delle cose, rendono eterni, incidendoli nella pietra, i segni della consunzione; mentre alludono alla trasformazione della materia, arrivano a insinuare che tutto ciò che vediamo, materia compresa, è immaginazione.
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