
18/07/2016
CURATED (BY): LA COLLEZIONE PATRIZIA SANDRETTO TRA GUSTO E CULTURA
TORINO | FONDAZIONE SANDRETTO RE REBAUDENGO | 30 GIUGNO – 16 OTTOBRE
Curated by (?) è una mostra eclettica, generosa ed eterogenea, libera da un nucleo tematico specifico teso ad unire le opere. In effetti, all’interrogativo lasciato aperto dal titolo potrebbe corrispondere solo la titolarità dei lavori esposti, nel nome del Presidente della Fondazione, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, il cui interesse particolare rappresenta l’unica forza coesiva nella selezione di opere provenienti dalla sua collezione privata. Nessuna tesi curatoriale a sostegno delle scelte espositive, dunque, ma una sicura opportunità per osservare e studiare capolavori che non si riescono ad avvicinare così spesso.
Risaltano le due creazioni che scrutano lo spettatore facendolo oggetto di sguardi inusuali da parte dell’arte: La rivoluzione siamo noi di Maurizio Cattelan e l’autoritratto di Pawel Althamer; e poi Hirst, Beecroft, la pittura di Glenn Brown e le compulsive decorazioni di Rudolf Stingel, insieme alle sculture di Kcho e Katharina Fritsch.
Il ridicolo a cui si espone programmaticamente Maurizio Cattelan diverte sempre, ma la spassosa scanzonatura che mette in atto contro il Modernismo, e che riesce a far insorgere nell’osservatore verso l’opera stessa, è solo il primo livello di sollecitazione, che non nasconde articolazioni complesse di citazioni, parodie e impertinenze rivolte all’arte e al pubblico. L’opera di Cattelan è sempre anfibia, perché qualcosa rende i suoi oggetti “arte” nello stesso momento in cui questi si divincolano per finire dalla parte del pubblico irridente e del suo spazio ordinario, con il corpo invischiato nel campo estetico e l’idea che scivola trasversalmente verso l’esterno in modo da fungere da perno autocritico. L’autoritratto di La rivoluzione siamo noi sfrutta la riduzione di scala per depotenziare l’artista, metaforicamente in balia del dispotismo sommario ed epidermico del giudizio popolare. Il manichino di Cattelan è appeso, impotente, ad un gruccia, rivestito da una copia in miniatura dell’abito di feltro di Joseph Beuys – emblema delle sfortunate utopie dell’Arte Moderna – e ingabbiato in un altro oggetto di appropriazione, un appendiabiti in acciaio tubolare uscito dal genio creativo di Marcel Breuer, seriamente impegnato nel laboratorio utopico-sperimental-industriale della scuola del Bauhaus dove si progettava la diffusione sociale e transclassista dell’arte nella vita quotidiana. Cattelan si sente rassegnato in ragione degli insuccessi registrati nella storia dell’arte, incarnando la fragilità pragmatica delle visioni ideali degli autori citati e diventando egli stesso simbolo, in quanto artista, dell’indebolimento delle loro idee universaliste, oramai decadute al meno nobile grado di illusioni.
Dal programma di Joseph Beuys, il più mistico e rivoluzionario autore del dopoguerra, Cattlean si appropria anche del titolo dell’opera. Dopo aver impegnato un posto nella sfera della cultura alta, si prende così gioco del ruolo rivoluzionario dell’artista. Guarda l’arte dal di fuori mentre ne interpreta i fallimenti al suo interno; si osserva allo specchio mentre si irride come fa spesso lo spettatore davanti ai suoi lavori. In questo modo, l’autoreferenzialità tanto vituperata nell’arte contemporanea si traveste di un grottesco costume autoironico, attraverso il quale la psicologia dell’opera manifesta la sua volontà sostanziale di perpetuarsi nell’errore.
Non bisogna, d’altra parte, dimenticare la solennità del modelli modernisti: il feltro era per Beuys simbolo di protezione e rigenerazione in memoria del suo salvataggio da parte di un gruppo di nomadi tartari quando il suo aereo precipitò durante la seconda guerra mondiale. Forse è per questo motivo che, in un momento di autocoscienza, trovandosi schierato con i suoi predecessori, Cattelan si riveste del feltro beuysiano per proteggersi dallo sguardo deresponsabilizzato e mediatizzato dello spettatore contemporaneo, restituendogli un’espressione torva, minacciosa e, forse, apotropaica. La rivoluzione siamo noi si sposta di continuo tra la fatuità dello spettacolo derealizzato (consapevolmente sfruttato per gran parte del successo dell’autore) e la riserva autentica dello spazio artistico, invertendo senza sosta i due punti di vista complementari.
Il doppio sguardo è protagonista anche nell’opera di Pawel Althamer, che si autoritrae in una scultura a grandezza naturale realizzata in grasso, cera, intestino animale e capelli veri. Althamer si osserva con cruda verità, senza idealizzazioni e provando, anzi, ad immaginarsi invecchiato in uno spaesamento visivo-temporale. Nudo ed esposto in tutti suoi difetti psicosomatici, con accentuate deformazioni sintomatiche del corpo, guarda inebetito davanti a sé senza osservare nulla, oggetto esistenziale di spietata autoanalisi e del sadico sguardo del pubblico voyeurismo.
Le opere di Damien Hirst e dell’artista cubano Kcho sono le più liriche. Love is great seduce per il libero volteggiare delle farfalle in una composizione cromatica meditata che sfrutta le screziature naturali delle loro ali. Il fondo turchese rappresenta una tonalità inedita nella tradizione artistica del monocromo, che lo ha forse boicottato proprio in virtù della sua capacità immediata di evocare uno spazio aereo profondo, e dunque immediatamente figurativo, in contrasto con l’oggettività pura e bidimensionale cui aspiravano gli sforzi degli artisti modernisti. Hirst ci offre una versione estetizzata, se non cosmetica, della visione della morte, ricordando la vicenda del romanzo decadente À rebours di Huysmans, il cui protagonista ingioiella la corazza di una tartaruga gigante dimenticandosi di nutrirla nella sua ossessione verso la perfezione estetica, fino ad ottenere una splendida suppellettile adorna di pietre preziose e intonata con i colori del tappeto quando ormai l’animale era morto. La bellezza del dipinto di Hirst fissa lo sguardo sulla morte riuscendo a cambiarne anche la natura, a renderla frivola e leggera come la nostra ignorante noncuranza di quell’evento, ma vera e inesorabile come l’immobilità fatale delle splendide farfalle invischiate nell’azzurro.
La scultura di Kcho cita il tributo alla Terza Internazionale Comunista progettato da Vladimir Tatlin. Il costruttivismo ideologico di quest’ultimo viene ridimensionato dall’originale architettura rigidamente monumentale ad una realizzazione artigianale ed effimera. La simbologia formale non perde la sua pregnanza, che viene però intimizzata, come se il comunismo reale del paese di provenienza dell’artista fosse stato restituito ai sogni personali e provvisori, in un assemblaggio esile di ramoscelli e fili di ferro simili a strutture nomadi di eguaglianza e libertà.
Su un fondo oro, cangiante, a seconda delle luci, verso il colore rosso ramato, che conferisce alla tela una solennità irreale, Rudolf Stingel dipinge in rilievo un motivo ripetuto ossessivamente. Il meccanismo seriale della pittura si scontra con la qualità organica dei motivi desunti da forme vegetali stilizzate, le cui elaborate volute finiscono per assumere un’espressività che le accomuna a delle maschere antropomorfiche. La rappresentazione si riassorbe nell’essenza oggettuale della superficie, morbosamente decorata con un’intensità tale da vanificare l’esistenza delle sbavature di colore, sempre diverse perché casuali, ai bordi dei moduli decorativi, ultime tracce della fattura umanamente imperfetta. Incantatrice e monotona come un frattale, la tela si attiva psichicamente non solo per il messaggio nascosto nella coazione a ripetere, ma anche in forza del proliferare energetico degli arabeschi naturali, imbrigliati in uno schema visivo ordinato e conturbante allo stesso tempo, privo di centro e in continua espansione, ma sempre pronto a ritrarsi nella concretezza piana e prosaica di un pannello ornamentale.
La stessa attenzione meritano certamente molte altre opere in mostra, frutto dell’attività di una Fondazione effervescente che rappresenta senza dubbio una delle fortune culturali della Città di Torino.
CURATED BY (?)
Artisti in mostra: Pawel Althamer, Tauba Auerbach, Vanessa Beecroft, Glenn Brown, Maurizio Cattelan, Roberto Cuoghi, Flavio Favelli, Fischli & Weiss, Giuseppe Gabellone, Douglas Gordon, Mona Hatoum, Damien Hirst, Anish Kapoor, Kcho, Sharon Lockhart, Sarah Lucas, Helen Marten, Senga Nengudi, Katya Novistkova, Diego Perrone, Thomas Ruff, Markus Schinwald, Rudolf Stingel, Rosemarie Trockel,Lynette Yiadom-Boakye
30 giugno – 16 ottobre 2016
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
Via Modane 16, Torino
Info: +39 011 3797600
www.fsrr.org

Damien HIRST - Love is great

Pawel ALTHAMER - Selfportrait

Veduta della mostra Curated By. Ph Giorgio Perottino

KCHO - A los ojos de la historia

Rudolf STINGEL - Untitled (Ex unico)

Maurizio CATTELAN - La rivoluzione siamo noi

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo e La rivoluzione siamo noi di Maurizio Cattelan
Torna